di Marco Martinelli

Visto all’ex Ospedale Psichiatrico Paolo Pini di Milano _ 25-26 giugno 2011

Nel programma di “Da vicino nessuno è normale” – rassegna curata dall’associazione “Olinda” nell’area dell’ex Paolo Pini, dal 12 Giugno al 24 Luglio – c’è spazio per storie e linguaggi diversi. Il denominatore comune? La capacità di fare accedere lo spettatore a mondi nei quali, per incuria o inerzia, di solito non mette piede. Il testo originale di Marco Martinelli, dedicato al popolo senza nome che attraversa il Mediterraneo per non ritornare (spesso per non arrivare nemmeno alla meta), è allora profondamente organico al coro delle altre voci della rassegna. E ancora più significativo in tal senso è il processo dal quale la drammaturgia ha avuto origine: il progetto Ravenna-Mazara 2010 – che ha dato alla luce il trittico Cercatori di tracce, Rumori di acque e Satiri danzanti – ha tenuto il teatro delle Albe presso Mazara del Vallo per più di un anno a periodi alterni. Il tempo giusto per imprimersi nella memoria facce, testimonianze, racconti, atmosfere della città di confine per eccellenza.

Di immigrazione clandestina, di scafisti, di acque che inghiottono e che cancellano prove si è già parlato a teatro: lo avevano fatto Bebo Storti e Renato Sarti nel loro La Nave fantasma, scritto in collaborazione con il giornalista Giovanni Maria Bellu (autore de I fantasmi di Portopalo e, non a caso, ringraziato anche da Martinelli in calce al suo testo). Ma se Storti e Sarti sceglievano da un lato la satira, dall’altro una cronaca cruda fatta di nomi e di date, le Albe battono un’altra strada. Quella dell’evocazione. Un generale-fantoccio di gheddafiana memoria sbraita sul palco cercando di mettere ordine tra i numeri dei morti in mare. Nella penombra, a malapena si riconosce il volto del bravo Alessandro Renda, che vomita parole a flusso ininterrotto con una voce graffiata e ferina che fa pensare alla sua maestra Ermanna Montanari. Non c’è nulla sulla scena che richiami concretamente il mare. Eppure, nel buio che lambisce l’intero spettacolo, non si vede altro che acqua; e da quella emergono, evocati, volti e storie. Nessuna a lieto fine: non quella di chi muore, dopo giorni di agonia, lanciandosi in mare; non quella dell’ingenuo scafista-faidate che non avrà destino migliore dei suoi clienti; e nemmeno quella di chi arriva a una meta così diversa da quella sognata.

Le sonorità ancestrali dei siciliani fratelli Mancuso sono quanto di più lontano da un mero accompagnamento musicale. La loro creazione nasce con e per lo spettacolo, la loro voce è parte fondante del tessuto drammaturgico, già a partire dalla magnetica presenza scenica: i due fratelli, eleganti e impeccabili, salgono sul palco e si concedono una lunga pausa verso il pubblico, a braccia incrociate, quasi per lasciare agli spettatori il tempo di notare l’incredibile somiglianza reciproca, i tratti del volto segnati e impregnati della loro terra. Toccano con arte i loro arcani strumenti, si stringono in un abbraccio per mescolare meglio, davanti al microfono, le loro voci dissonanti; voci che sono – nella loro definizione – “arpioni con cui si deve catturare e trascinare a riva quella moltitudine di voci che giace, muta per sempre, in fondo al mare”. E questa lingua mista – fatta delle “vibrazioni sottocutanee” dei Mancuso, e dello sproloquio di un generale demoniaco eppure così spaventosamente umano –  pare giungere direttamente dal fondo degli abissi e portare all’orecchio refrattario dello spettatore il rumore di quelle acque.

Maddalena Giovannelli