Di Eimuntas Nekrošius
visto al Teatro Franco Parenti di Milano _ 19-21 ottobre 2012

 

“L’arte non è cosa complicata”.

Così affermava Eimuntas Nekrošius a proposito del suo Hamletas, lo spettacolo che aveva appena sfornato – era il 1997 – e che lo avrebbe proiettato tra i nomi di maggior rilievo del teatro mondiale.

Eppure, anche a distanza di quindici anni, tanto semplice la sua arte non sembra affatto, quantomeno nell’accezione più comune del termine: permeata di uno spirito straniante e di un’intensità che l’avvicina a un rituale magico-religioso, sarebbe più appropriato definirla concreta, funzionale, materica al limite, ma ancora non si coglierebbe il marchio di fabbrica del regista lituano.

La sua capacità sta infatti nell’essere elementare, nel riuscire cioè a leggere un’opera ed estrarne sulla scena l’essenza, quella emotiva (ciò che tocca e fa vibrare), e quella intellettuale (l’interpretazione di ciò che stava nel testo).

Così, guardando Amleto e Ofelia che giocano teneramente tra loro o che si dicono addio, emerge, dietro la maschera dell’attore, la più pura umanità: la profondità dei sentimenti, celata nella scrittura e troppo spesso banalizzata nelle innumerevoli interpretazioni di Shakespeare, irrompe con elementare e, in questo senso sì, semplice, naturalezza.

E benché di tempo ne sia passato sui volti degli attori e nel mentre Nekrošius ci abbia abituati a prodotti più maturi e formalizzati, Hamletas non solo possiede ancora un vigore visivo e registico notevole, ma diviene testimonianza ‘storica’ dell’inesauribilità della materia e della poetica cui attinge il regista lituano.

Diviso in tre atti, lo spettacolo affronta il testo di Amleto liberandolo da diversi topoi a cominciare dall’istanza dubitativa del protagonista che perde la sua carica razionale per tramutarsi in istinto viscerale: uccidere lo zio usurpatore è un inevitabile atto di giustizia.

Il rapporto col padre-fantasma e il dovere filiale diventano quindi la pietra angolare dello spettacolo, l’imperativo morale che comanda le gesta di Amleto.

Azione chiama reazione, la necessità viene espressa magistralmente – ancora una volta in maniera simbolica – dal ghiaccio che si scioglie e lascia spazio al fuoco: dopo un’abluzione con un grosso cubo di ghiaccio, Amleto, penetrato dal tocco del fantasma-genitore che gli terge le membra, frantuma il gelo del suo lutto per cavarne lo strumento della sua (ardente) vendetta.

Nekrošius reinterpreta l’opera di Shakespeare, ne amplifica alcune parti tra quelle spesso considerate meno significative, ne taglia altre (Rosencrantz, Guildenstern, Fortebraccio), addirittura aggiunge un epilogo metafisico e nondimeno riesce a mantenere la polifonia dei registri del testo shakespeariano, dosando l’ironia (il celebre teschio diventa una noce di cocco) e la drammaticità (l’angosciante trappola per topi-pressa meccanica) con la consapevolezza di chi sa ben suonare lo strumento teatrale (il bastone-flauto di Polonio ne è la metafora) e ha il coraggio di osare.

L’inventiva registica non solo rinnova ogni scena, compito primo e più difficile in ogni rilettura, ma conferisce nuovo senso, nuovo interesse per lo spettatore.

Poco importa quindi se l’apparato simbolico non riesce a essere sciolto del tutto – anzi, questa irriducibilità costituisce proprio quel fascino ‘liturgico’ di cui si parlava all’inizio – i limiti dello spettacolo sono semmai  da cercare in altri fattori.

Il primo è quello del ritmo: nel terzo atto, in particolare, si percepisce un po’ di stanchezza, come se i temi di riflessione dilazionassero l’azione finale, senza riuscire però a godere della spinta propulsiva delle scelte registiche.

È lecita poi qualche nota tecnica: lo spazio scenico (il palco del Franco Parenti, che ha il merito di essersi aggiudicato anche quest’anno la compagnia di Vilnius) sembra essere troppo stretto per gli elementi di scenografia: tutto viene stipato sul fondo, gli attori devono stare attenti a non urtare gli oggetti, il pianoforte utilizzato per la musica dal vivo quasi spunta da dietro le quinte.

Se a questo si somma una non impeccabile gestione delle luci e dei sovra titoli, la sensazione di disordine è dietro l’angolo e sottrae pulizia e forza evocativa alla rappresentazione.

Ciò nonostante andare a vedere uno spettacolo di Nekrošius è come assistere a un imponente fenomeno naturale e contemporaneamente alla realizzazione di un congegno complesso, lo stupore e la consapevolezza che ne derivano si fondono in un unico sentimento di pienezza.

E non è cosa scontata.

 

Corrado Rovida