di Roberto Cavosi
regia di Carmelo Rifici
visto al Tieffe Teatro Menotti di Milano_ 10-27 gennaio 2013

Siamo a Seveso, nel 1976: un reattore della ditta Icmesa esplode sprigionando diossina. Ma i luoghi, le date, i nomi sono pura contingenza: Cavosi e Rifici portano in scena una tragedia che dal particolare muove verso l’universale.
La drammaturgia evita i facili parallelismi con le nostre Icmesa contemporanee – Ilva o Muos – e sperimenta una struttura tragica che alterna Coro ed episodi. E sono proprio questi ultimi a portare avanti una narrazione che – se talvolta si perde in qualche prolissità – appare nel complesso ben congegnata.
Sara (Maddalena Crippa) aspetta un figlio. Alla vista di altre donne costrette a ricorrere all’aborto terapeutico (autorizzato dall’allora ministro della sanità Luciano Dal Falco), prega la Vergine per un miracolo e decide di non cedere al ricatto: il figlio tanto desiderato nascerà. Qui il racconto tragico si fa parabola cristiana: l’incontro con la Vergine e la comparsa del capo dell’Icmesa nei panni di Ponzio Pilato segnano l’allontanamento dal linguaggio da cui il dramma era partito.
Sara sarà forse madre, Maria è una madre che ha perso il figlio per sempre: il Coro finale racconta con delicatezza e pienezza la figura di una mater universale e il dolore per la perdita di Cristo vissuto, non come sacrificio del figlio di Dio per l’umanità, ma come sofferenza di una madre (o meglio di tutte le madri di questo mondo).

A connotare con forza lo spettacolo è la presenza invasiva di un male universale, di cui la diossina appare simbolo. La nube tossica – come un moderno miasma – sporca e contamina ogni cosa senza lasciare scampo nemmeno alla speranza. Non passa inosservato il continuo riferimento verbale alla polvere, alla forza purificatrice del vento e l’accento che, anche a livello scenografico, è posto al binomio sporcizia/purificazione.
Lo strato di sabbia, che percorre la linea ideale di separazione tra palcoscenico e platea, è parte integrante del dramma. Gli attori maneggiano la polvere, la trovano nel piatto della cena, nelle valige, nelle case, si macchiano e cercano di restare puliti. Il colpevole – Pilato – verrà identificato come tale proprio nel suo apparire completamente ricoperto di povere. La scenografia, per il resto, è costituita da blocchi che, mossi dagli stessi attori, propongono di volta in volta un ambiente diverso.
Gli attori paiono a proprio agio in questo ambiente opprimente e mutevole. Il coro – tra litania, lirica antica e canto cristiano – è ben condotto dalle voci di Carlotta Viscovo, Francesca Mària, Stefania Medri e Raffaella Tagliabue. Maddalena Crippa, nel ruolo di Sara, conferma la sua tempra: l’impiego di una schietta cadenza lombarda – che all’inizio appare un po’ piatto – si rivela poi efficace linguaggio del quotidiano. A bilanciare l’andamento a tratti troppo monologico dello spettacolo è soprattutto Francesco Colella: nei panni di Davide e di Pilato, porta grande energia e ritmo ai dialoghi, variando i toni con grande espressività.

La regia di Rifici – alle prese con un testo non semplice – calibra bene le atmosfere ma si perde, soprattutto nel finale, in un eccessivo impiego di stimoli. La comparsa sullo sfondo delle immagini di bambini nati malformati a causa delle contaminazioni e l’utilizzo di troppi oggetti di scena appaiono non necessari e sembrano togliere forza e pulizia a quanto avviene sulla scena. Il regista conferma insomma quanto emerso nel Giulio Cesare presentato al Piccolo Teatro: un talento che sta cercando la sua strada, tra buone intuizioni e assestamenti di percorso.

Camilla Lietti