Regia e drammaturgia di Armando Punzo
Con i detenuti-attori della Compagnia della Fortezza
Visto nel carcere di Volterra,  in Volterrateatro 2014_dal 21 al 27 luglio

 

“Possiamo considerare questo luogo come la nostra anima, come un castello interiore di cristallo dove ci sono molte stanze, molte dimore. Non trovo nulla a cui paragonare la grande bellezza di un’anima, la sua immensa capacità”.

Santo Genet è un complesso percorso verso la perfezione che Armando Punzo fa passare anche da qui, dalla citazione di Santa Teresa d’Avila, la mistica delle Carmelitane Scalze che con il suo Castello Interiore indicava alle monache di clausura il sentiero per una possibile ricongiunzione dell’anima con Dio. Nella bocca di Punzo, truccata da un rossetto scarlatto – come si addice alla maîtresse del bordello/limbo costruito tra le mura del carcere di massima sicurezza di Volterra – il significato delle parole della riformatrice spagnola acquista forse maggior concretezza di quanto avrebbe oggi tra le labbra di un ecclesiastico. In ogni cella della casa circondariale giace infatti una storia di espiazione che attende di essere raccontata, e non importa se, in alcuni casi, non c’è pentimento: “è un male minore che ci sia chi non ci crede, piuttosto che privare di un beneficio dovuto quelli che ci credono”, chiosa sempre lo stesso Punzo mentre, con sorriso dolce ed enigmatico, traghetta il pubblico attraverso il cortile fin nel cuore della prigione.

Qui, un campionario di personaggi genettiani, interpretati con incredibile verità dagli attori-galeotti, snocciola i propri monologhi interagendo col pubblico o semplicemente osservandolo attraverso i numerosi specchi disposti nel corridoio su cui si aprono le celle. Sono uomini, marinai, spose, santi e peccatori insieme, che attirano lo spettatore, lo seducono, lo mettono a parte di se stessi, della propria vita. Si crea così una sorta di orgia agiografica in cui i corpi dei visitatori si confondono a quelli degli interpreti: ci si spinge gentilmente nel tentativo di penetrare gli spazi angusti, si suda, si incrociano gli sguardi, si sovrappongono i racconti ai commenti. Per oltre un’ora sembra davvero di fondersi in un’unica entità collettiva che arriva a sublimare la propria natura comunitaria e solidale in un ballo generale dove le note di un valzer sigillano l’avvenuta unione. È il segnale che è tempo di tornare fuori, all’aria aperta del cortile, nella luce del sole resa ancora più accecante dalla bianchissima scenografia che la rifrange, a tirare le somme di questo iter coscienziale, le cui tappe appaiono ormai del tutto evidenti: è cominciato con una cerimonia del the (rito iniziatico e purificante che ha consentito al pubblico di accedere alle stanze segrete del castello), è proseguito con l’esperienza dello sciogliersi nell’altro (l’anima esce da se stessa non riconoscendosi) e deve terminare nella presa di coscienza, nell’illuminazione.

Il lavoro della Compagnia della Fortezza è da sempre quello di avvicinare il dentro al fuori, dove il dentro sta per il carcere e il fuori consiste per lo più in un’indifferenza che necessita di essere resa partecipe, o quanto meno sollecitata, magari proprio dalla “lingua rosa dei carcerati, la sola parte di noi che rievoca un fiore”, come propone Culafroy, il personaggio interpretato da un ammiccante Aniello Arena. Santo Genet rende esplicito questo obiettivo e, trovando nell’universo dell’autore francese un serbatoio drammaturgico e poetico di alto livello a cui attingere a piene mani, dà vita a un’allegoria della pacificazione, a una rappresentazione al contempo sacra e profana dove gli opposti si toccano. È un mondo dove è possibile scovare “l’eleganza tra le cose di cattivo gusto”, dove l’estetica kitsch della queer culture – a cui si ispirano i costumi ideati da Emanuela Dall’Aglio – si coniuga armoniosamente con l’iconografia delle immagini sacre che compaiono a più riprese durante lo spettacolo.
Punzo riesce ad organizzare la materia scenica in un’organicità densa, simbolica e allo stesso tempo quasi priva di retorica (risultato nient’affatto scontato in uno spettacolo che rimanda a problematiche sociali); scova nei suoi attori quella ‘caramella’ di talento, di verità e di grazia che ciascun essere umano possiede e la fa rilucere, la moltiplica, incastonandola al posto giusto in una messa in scena-mosaico da vedere e rivedere fino ad afferrarne ogni sfumatura.

Se una nota dolente si deve cogliere in quello che è parso uno spettacolo pressoché ineccepibile è solo in prospettiva, quando cioè approderà nei teatri. È difficile immaginare Santo Genet fuori dalla cornice della Fortezza medicea di Volterra, sciolto cioè da quel contesto carcerario che lo rende un unicum esperienziale e che ne accentua la carica emotivo-eversiva. È difficile pensarlo depauperato di alcuni suoi interpreti a causa delle autorizzazioni legali o collocato in una dimensione più frontale e meno avvolgente. Eppure la tournée è un’operazione indispensabile: serve a ricordare a chi sta fuori che, a ben vedere, “ogni uomo uccide le cose che ama” (come canta Jean Moreau in Ascensore per il patibolo), ma che alcuni di questi pagano con una non-morte le proprie colpe. E se in questa dimensione sospesa, in questo “danzare sul filo”, è ancora possibile rivendicare una dignità di artista, vuol dire che, in fondo, esiste una prospettiva anche per quella dell’uomo.

Corrado Rovida