riflessioni a margine di Le mille e una notte
Drammaturgia e regia di Maria Grazia Cipriani
Visto alla Sala Fontana di Milano _ 20-30 novembre 2014.

25 novembre, giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Anche il teatro fa la sua parte per ricordare e commemorare le vittime, per opporsi allo stillicidio. Gli antichi Greci, in questo, sono stati maestri: cattivi maestri, per la violenza effettivamente esercitata – non solo sulle donne – ma buoni maestri nel rappresentarla, a teatro, in modo simbolico, traslato, non realistico. Alcuni drammaturghi e registi di oggi, su questa scia, anziché ricalcare fedelmente la cronaca attingono al mondo classico e spostano la questione su un piano mitico o allegorico. Nel migliore dei casi, in questo modo, l’effetto spiazzante e perfino disturbante della violenza è rafforzato dalla contaminazione tra antico e moderno. Citiamo solo tre esempi recenti.

Vincenzo Pirrotta, regista delle Donne a Parlamento (Teatro Greco di Siracusa,2013, traduzione di Andrea Capra) inserisce a metà commedia una parabasi (un canto corale solitamente presente, in Aristofane, ma qui mancante). Le donne, provocatoriamente velate, sfidano gli spettatori con lo slogan “Se non ora quando?”. Ci ingiungono di fermare il massacro, guardandoci negli occhi, chiamandoci in causa e provocando in molti un evidente disagio, e a seguire parecchie critiche: l’affondo colpisce nel segno. Altri due casi analoghi fanno risuonare echi della violenza greca in contesti esotici, ma non lontani, creando vere e proprie eroine tragiche: Incendi (2003) di Wajdi Mouawad, drammaturgo di origine libanese e di lingua francese, dipinge una storia familiare di ispirazione edipica sullo sfondo di una guerra atroce; e il togolese Kossi Efoui con Io (tragedia) libera riscrittura del Prometeo (2006), fa della sfortunata ragazza – nel mito vittima della libido di Zeus e della gelosia di Era – il simbolo dell’Africa violentata e martoriata, delle sue donne stuprate, cacciate di casa, costrette a vagare senza meta e a partorire in ostelli, rifugi, campi profughi.

In queste drammaturgie i fili rossi della violenza si intrecciano attraverso il Mediterraneo, e le storie di oggi acquistano una dimensione tragica che le affranca dal contingente. L’impatto non si smorza, anzi si amplifica, se il teatro rinuncia a imitare la realtà: a differenza di altri media che rischiano un effetto controproducente di accumulo, saturazione, per l’escalation di violenza cui ci espongono quotidianamente fiction e cronaca, tra immagini in diretta TV e videogiochi sempre più estremi. Anche noi, ormai assuefatti, tendiamo troppo spesso a distogliere lo sguardo, per noia o per incapacità di affrontare il perturbante: ma specialmente i giovani sembrano impreparati a questo, e tradiscono più fortemente un disagio diffuso. Hanno difficoltà a riconoscere e controllare le proprie reazioni. Devono sviluppare, ancora, strategie e strumenti per affrontare e comprendere le informazioni ma soprattutto le emozioni in gioco.

Preparare i giovani a tutto questo, a essere vigili e critici, e non solo a teatro, è un compito pedagogico ma anche un dovere civico per genitori, insegnanti, operatori teatrali. Ed è uno degli obiettivi comuni alle varie istituzioni e scuole coinvolte da Stratagemmi nel progetto Acrobazie Critiche. A maggior ragione per la questione che trattiamo qui, il teatro può essere uno strumento educativo prezioso; aiuta ad aprire un varco nel ‘muro di gomma’, a superare gli schermi di difesa, gli scudi che ciascuno di noi mette in atto quando si trova di fronte, o in mezzo, alla violenza. Dobbiamo essere preparati, pronti a tutto, per lasciare ‘entrare’ l’attore, anche se tocca nervi scoperti, e non chiamarci fuori. Se funziona, il teatro ci fa sentire coinvolti, partecipi. E, dunque, in qualche modo vittime e carnefici al tempo stesso.

Ne abbiamo un ultimo esempio, lampante, proprio il 25 novembre: il Teatro Sala Fontana di Milano organizza per l’occasione una replica scolastica de Le mille e una notte del Teatro del Carretto. Il titolo richiama una storia esemplare di violenza, una rara eccezione per il lieto fine: il sultano Shahriyar ogni notte sposa e uccide una donna, finché la ‘narratrice’ Shahrazad –interpretata dalla straordinaria Elsa Bossi – gli si offre in sacrificio, con le sue storie. Con quelle riuscirà a farlo innamorare, a salvarsi la vita, a fermare l’eccidio. Questa cornice racchiude come uno scrigno prezioso altre storie, in gran parte di provenienza classica: intessute l’una all’altra, come un arazzo a forti tinte, e a dominante rossa. Storie di violenza, subita soprattutto dalle donne, e quasi sempre per mano di uomini. In teoria innamorati, in realtà distruttivi: gelosi o infedeli, oppressivi o insensibili, sempre implacabili; come lo stalker Apollo che costringe Dafne alla fuga, o Narciso che respinge Eco con tale violenza da farla deperire e consumare, letteralmente, quasi a prefigurare l’anoressia.

Al centro della rete di storie la più intricata, e densa di violenza, comincia con Pasifae, moglie di Minosse: per una colpa del marito viene punita – lei, innocente – da Poseidone, indotta ad accoppiarsi con un toro e generare il Minotauro. Che ne è del mostro, figlio non voluto, segno tangibile dell’adulterio e della vergogna? Recluso nel Labirinto di Dedalo, con la sola ‘compagnia’ dei giovani che gli vengono offerti in sacrificio. Giacomo Vezzani, indimenticabile, lo reinventa seguendo un altro filo (quello del Minotauro di Dürrenmatt). I suoi muggiti diventano rantoli per mano di Teseo, il suo assassino. Ma quest’ultimo (meravigliosamente incarnato, come Shahriyar, da Nicolò Belliti), ha sulla coscienza anche un’altra vittima. È Arianna, sorella del Minotauro, che offre il fratello (e se stessa) in pasto al giovane sconosciuto. È lei la vera protagonista di un caso, ancor oggi esemplare, di amore mal riposto: prima innamorata, poi complice, infine abbandonata dall’amato. Elsa Bossi dà corpo a un crescendo quasi senza parole, dal comico al tragico, seguendo il filo che lei stessa dona a Teseo per poter uccidere il mostro e uscire dal labirinto: non solo è rosso, nello spettacolo, ma è una scia di sangue che contamina il candore della scena e del vestito di lei.

I tre eccellenti attori, come sempre ben guidati da Maria Grazia Cipriani, si trasformano sotto i nostri occhi, usano i corpi più che le parole, variano continuamente toni e registri (a differenza dei modelli tragici greci, volutamente ‘purgati’ dal riso) e creano (o ricreano) personaggi sempre sul filo del tragicomico e del metateatrale. Tra questi, in particolare, un surreale fool shakespeariano (Giacomo Vezzani) è di fatto regista in scena: è il teatro che riflette su se stesso, accompagna gli attori, dà la battuta, avvia l’azione, fa da tramite col pubblico. È l’attore tout-court, capace di commuoverci come Minotauro e poi divertirci, imitando il narciso Teseo, nella passerella finale.

Grazie a lui lo spettacolo si chiude con una risata liberatoria, autoironica, che contrasta col riso di ben diversa natura che aveva accompagnato una delle scene precedenti: qui, con un netto stacco rispetto al resto dello spettacolo, la realtà contemporanea irrompe sotto forma di vesti bianche insanguinate. Sono vendute all’asta da due battitori che le ricollegano man mano a eccidi e stupri di massa di donne e bambine, alludendo con cinico disincanto alla logica del profitto e del ‘mercato’ che guida guerre e stragi dei nostri giorni. La reazione di alcuni giovani spettatori, che partecipano all’asta e ridono a dispetto di quel che sentono, può stupire o scandalizzare. Eppure non fa che confermare, indirettamente, quanto siano forti i meccanismi di difesa istintivi, le barriere che inconsapevolmente alziamo, per non farci coinvolgere. E ci ricorda quanto sia lento, faticoso e difficile il processo di crescita e maturazione – che riguarda anche noi adulti – verso un’accettazione vera e consapevole delle radici della violenza: primo presupposto di un’azione efficace, nel pubblico come nel privato, di una battaglia culturale e sociale che si gioca, certo, sulla protezione delle vittime e la punizione dei colpevoli, ma prima ancora sulla prevenzione, sull’affermazione di una reale parità tra i sessi, sul riconoscimento e il rispetto dei reciproci diritti e doveri, sin dalla più giovane età.

Martina Treu