di Michaìl Marmarinòs e Teatro Nō del Giappone
Epidauro_ 24-25 luglio 2015

Le radici culturali di Oriente e Occidente si sono incontrate nell’orchestra del teatro antico di Epidauro. Molto più che un esperimento interculturale – e davvero un piccolo miracolo in questa difficile estate greca – Nekyia di Michaìl Marmarinòs è stato senz’altro l’evento più affascinante del Festival. Una decina di giorni dopo la fortunata première a Tokyo, i codici cristallizzati del Teatro Nō (compagnia del Maestro Rokuro Gensho Umewaka) hanno dato voce a una delle scene più misteriose dell’Odissea omerica, la discesa dell’eroe nel regno dei morti.
A suggellare il sorprendente connubio fra Grecia e Giappone, le porte del teatro si sono aperte anche all’alba del 25/07 e un folto pubblico ha seguito la poetica cerimonia rituale del Teatro Nō: la preghiera propiziatoria per il sorgere del sole. In scena la lotta fra un drago (le tenebre) e la luce, e la vittoria di quest’ultima mentre i primi raggi del sole cominciavano a colpire le gradinate.

Allo stesso modo, le movenze lente e arcane del Teatro Nō (dieci danzatori del Coro e quattro musicisti), hanno restituito alla Nekyia i tratti di una ritualità perduta. Marmarinòs è riuscito a individuare un filo rosso per accendere una inedita continuità fra mondi e culture così distanti: nel Teatro Nō, proprio come nella rapsodia dell’Odissea, le ombre dei morti spesso ritornano in scena.
Come scrive Grigoris Ioannidis (Efimerida ton Syntaktòn, 27.07), il teatro occidentale ha perso la capacità di comunicare con l’aldilà e dunque ha dimenticato il suo nucleo di vibrante sacralità: “ecco perché le scene si sono riempite di lenzuoli, fantasmi, diafane trasparenze e zombies. Lo spettacolo di Marmarinòs ha invece restituito alla Nekyia il suo spessore di spiritualità”. Da tempo l’inquieto regista voleva cimentarsi con la rapsodia omerica, ma era alla ricerca di una “lingua” adatta ad esprimere questo “viaggio nel luogo dell’impossibile e dell’ineffabile”. La risposta è venuta dal lontano Giappone. Il regista ha spiegato che si è orientato alla minor invasività possibile, per lasciare che fossero i codici antichissimi del Nō a convogliare la voce dei morti omerici.

La cultura giapponese – precisa Marmarinòs – al di là della superficie ipertecnologica, riserva attenzione e rispetto al sacro, presente in natura e oggetti, e infatti “il Teatro Nō è uno dei più alti tentativi della civiltà di creare una poesia metafisica, un linguaggio di silenzi e di sottrazione che, attraverso la levità di un solo gesto, sa passare dal realismo al surreale e all’iper-realtà di un mondo altro” (Matina Kaltaki, LIFO 25.07). Ma oltre alla capacità di dare voce ai morti, i due generi (epos occidentale e Teatro Nō) hanno esperienza di una lunghissima tradizione, e inoltre entrambi sono “poesie cantate”, un logos prosodico accompagnato da strumenti musicali.

D’altra parte rappresentare la Nekyia a Epidauro significa riconoscere a questa scena epica una dimensione teatrale e tragica, che si dilata all’universale domanda sul destino dopo la morte. L’operazione di Marmarinòs guarda inevitabilmente alla tragedia greca antica. Nella prestigiosa sede di Epidauro il regista propone il suo esperimento anche come potenziale sentiero espressivo per affrontare il dramma antico: come la tragedia delle origini, il Teatro Nō sfrutta gli elementi di danza, musica, coralità, maschere, realizzando così il contatto con le radici ancestrali di una alterità che confina con il sacro. “Se vuoi tornare, arrivare dove desideri, devi prima passare dai morti e parlare con loro”, ha ricordato Marmarinòs parafrasando le parole di Circe a Odisseo (Efi Marinou, Efimerida ton Syntaktòn, 18.07), aggiungendo che il senso di questo incontro storico fra Occidente e Oriente non va interpretato come volontà di tornare indietro nel tempo, bensì sotto, in una direzione di profondità verticale, per scoprire, al di là delle differenze, le strategie comuni per interpretare la realtà attraverso lo strumento-teatro.

Gilda Tentorio