Fedra è l’ultima delle eroine tragiche ad aver lasciato il teatro di Siracusa (52º Ciclo di Rappresentazioni Classiche) e la sola a continuare il percorso scenico in altri teatri della Sicilia, quello di Segesta e di Taormina. Nell’immaginario di molti spettatori questi edifici teatrali, simbolo del nostro passato, sono avvertiti genericamente come antichi, a volte greci, altre romani; la loro distanza dai teatri moderni e contemporanei viene percepita anzitutto nell’apertura al cielo, dovuta all’assenza di una copertura stabile, nella luce naturale che inonda ciò che resta di gradinate, orchestra, scena, nel rapporto con il paesaggio circostante, con i suoi rumori e odori, con le panoramiche vedute.
Assistere a Fedra nel sospeso e isolato teatro di Segesta è per gli spettatori un’occasione straordinaria per recuperare alcuni di questi aspetti essenziali del vivere il teatro ‘antico’ (si leggano le riflessioni di M. Treu), qui meglio preservati che nei teatri di Siracusa e di Taormina, inglobati in città che hanno continuato a vivere e crescere su se stesse.

Ma cosa cambia per registi, attori, scenografi quando da un teatro ‘chiuso’ contemporaneo passano a lavorare nel teatro ‘aperto’ e ‘antico’ di Siracusa? Cosa cambia quando da questo passano nei teatri di Segesta o di Taormina, monumenti archeologici ma certo non uguali dal punto di vista architettonico e storico-culturale? Soprattutto, qual è il grado di consapevolezza che gli artefici dello spettacolo hanno dell’antichità di questi monumenti e delle sue valenze?
Mettere in scena la Medea di Euripide è ben diverso dal rappresentare la Medea di Seneca: non è forse altrettanto diverso lavorare su una tragedia o commedia greca in un teatro greco dal farlo in un teatro romano e più ancora in un teatro che da greco è diventato romano, trasformando i segni della propria storia, preservandone alcuni, cancellandone altri, in certi casi fino a divenire tutt’altro che teatro? Questi interrogativi necessitano di dovuti approfondimenti che ci auguriamo di poter presto sviluppare. Per il momento proponiamo una breve riflessione su alcuni dei temi sollevati limitatamente al teatro di Siracusa, luogo per eccellenza delle rappresentazioni classiche in Italia.

Negli anni in cui Wolfang Goethe definiva il teatro di Taormina “una gigantesca opera d’arte e di natura”, in Sicilia altri protagonisti del Grand Tour lasciavano memorie meno entusiastiche sul teatro di Siracusa. Ne biasimavano il cattivo stato di conservazione esprimendo sdegno per la cavea mutilata dall’impianto di mulini e inondata dalle acque di alimentazione, per il fitto canneto che ricopriva l’orchestra, per la scena semidistrutta. L’architetto e pittore Jean Houel, in una suggestiva veduta tardo settecentesca, restituisce questa forma di vita del teatro siracusano, una delle tante assunte dal monumento nel corso della sua lunga storia.

I mulini alimentati dall’acquedotto Galermi, come il prelievo di materiali della scena da parte delle milizie spagnole di Carlo V per costruire i bastioni della città, furono tra i segni più eclatanti delle funzioni che l’edificio assunse nel tempo, quanto mai eterodosse rispetto alla destinazione originaria. A questa si tornò agli inizi del XX secolo, quando il conte Mario Tommaso Gargallo istituì il “Comitato” che nel 1925 divenne “Istituto del Dramma Antico” e, di lì a poco, INDA. Garante scientifico del “Comitato” fu nominato l’archeologo Paolo Orsi, artefice di importanti campagne di scavo nel teatro, i cui risultati furono pubblicati nella prima monografia sull’edificio, firmata da Giulio Emanuele Rizzo.

Nell’introduzione l’autore dichiarava di voler presentare il monumento analizzandone le fasi “classica, ellenistica, romana” e di voler studiare le “trasformazioni e le modifiche svoltesi dal V secolo a.C. al IV d.C.”, tanti erano i secoli di vita del teatro. Un obiettivo ambizioso, ma soprattutto inedito negli studi di inizio Novecento sul teatro antico che, laddove fosse stato possibile, erano poco interessati a ripercorrere la storia dell’edificio anche nell’età romana poiché il loro fine primario era ricostruire la struttura teatrale, in particolare la scena, al tempo dei grandi drammaturghi ‘classici’ e nella prima età ellenistica. Lo stesso Rizzo, nonostante le premesse, mostrò di considerare il teatro di Siracusa come una forma architettonica e culturale alta solo nella fase racchiusa tra l’età classica e quella della grande monumentalizzazione promossa dal basileus Ierone II (230 o 227/6 – 214 a.C.), affermando che le modifiche romane erano opere di “deturpazione”, “devastazione”, “rozzezza”, molto distanti dalla “finezza greca”.

La predominante attenzione archeologica rivolta alla fase ‘alta’ del teatro di Siracusa era all’epoca in sintonia con il recupero dello stesso monumento come edificio da spettacolo, da subito simbolo del teatro greco classico. Le rappresentazioni moderne furono infatti inaugurate, il 16 aprile 1914, con l’Agamennone di Eschilo (traduzione di Ettore Romagnoli), rinnovando idealmente la presenza del tragediografo classico a Siracusa. Negli stessi anni un’analoga riattivazione avvenne nei teatri di Atene, Orange, Nîmes e, tornando in Italia, di Fiesole, ma solo a Siracusa, grazie anche a Orsi e allo scenografo Duilio Cambellotti, fu dibattuto “il problema di come impostare, dal punto di vista scenico, una tragedia classica in un teatro greco” (Artista di Dioniso 2004).

I nuovi indirizzi di studio in campo archeologico e le nuove metodologie d’indagine, maturati soprattutto a partire dalla fine del XX secolo, invitano oggi a leggere le tracce materiali dei teatri senza limitarsi a enfatizzare una sola fase: la completa conoscenza è possibile solo attraverso la messa a fuoco delle dinamiche di trasformazione, e non cristallizzando la storia dell’edificio in un momento unico, assoluto e privilegiato. Un approccio valido a maggior ragione per teatri di lunga vita come quelli di Atene e di Siracusa, che si presentano come un’articolata sequenza di interventi architettonici e decorativi, i quali riflettono ‘materialmente’ il divenire della storia culturale, religiosa, politica, sociale della città di cui erano monumenti distintivi.

La funzione primaria del teatro siracusano si protrae infatti ben oltre il V sec. a.C. o l’età dell’oro di Ierone II. Essa vive e si rinnova fino alla tarda età imperiale (IV-V sec. d.C.), quando i resti archeologici documentano un uso del teatro per spettacoli ormai radicalmente diversi dalla tragedia attica, fra i quali citiamo i ludi acquatici, scenografiche riproduzioni di battaglie navali, mimi e danze in acqua che per poter essere svolti richiedevano modifiche strutturali dell’orchestra, del palco, delle gradinate inferiori della cavea.
Il teatro dove dal 1914 vengono messe in scena le tragedie di Eschilo, Sofocle, Euripide non è, sotto il profilo architettonico, quello greco in cui veniva rappresentato il Prometeo di Eschilo: altra era l’orchestra in cui agiva il coro, per dimensione e configurazione molto diversa da quella oggi visibile, altre erano le gradinate riservate agli spettatori, soprattutto altro era l’edificio scenico.

Dunque nel 2016 si mettono in scena Alcesti di Euripide, Elettra di Sofocle, Fedra di Seneca non nel teatro ‘greco’ di Siracusa ma nel teatro ‘antico’ di Siracusa, in un impareggiabile organismo che racchiude in sé quasi mille anni di storia del teatro greco (classico ed ellenistico) e di quello romano (dalla prima alla tarda età imperiale), in un luogo che ha avuto nel V sec. a.C. innegabili e fondamentali contatti con il grande teatro attico ma che ha sviluppato anche una storia teatrale da questo indipendente e in rete con le altre realtà teatrali siciliane (Akrai; Morgantina; Tindari; Segesta, per citarne alcune).

Sarebbe dunque auspicabile che anche da parte degli archeologi possa essere dato un contributo costruttivo al problema dell’uso dello spazio di un teatro antico da parte dell’attore tragico contemporaneo (così ben sollevato da Maddalena Giovannelli su doppiozero), che dovrebbe lavorare sulla recitazione di un testo classico anche tenendo conto di uno spazio che non solo è molto diverso da quello in cui recita abitualmente, ma è anzitutto molto complesso sotto il profilo storico e architettonico.

Una proficua riflessione sulle odierne rappresentazioni dei classici greci e latini deve passare anche attraverso una conoscenza più consapevole e approfondita, da parte di attori, scenografi, registi, dello spazio con il quale entrano a vario titolo in relazione. Nello specifico del teatro di Siracusa, la straordinaria stratificazione archeologica che ha accolto Eschilo, l’esibizione del potere regale di Ierone, le discinte danzatrici dei ludi acquatici potrebbe generare nuovi, interessanti modi di restituzione dei classici sulla scena contemporanea.

Raffaella Viccei