Atridi: otto ritratti di famiglia
Un progetto speciale diretto da Antonio Latella
visto a VIE Festival _ Teatro delle Passioni, Modena _ 14-15 otobre 2016

Che la lunga durata faciliti empatia e partecipazione del pubblico, lo sapevano bene gli antichi e non lo dimenticano i maestri del contemporaneo. Lo abbiamo visto, proprio un anno fa, con le ventiquattro ore del Mount Olympus di Jan Fabre, o qualche anno prima con le dodici de I Demoni di Peter Stein, tra i molti. Ed è, senza dubbio, un connubio che si sposa molto bene con le grandi saghe classiche, che si tratti dei tragici greci o di Dostoevskij. Nel caso di Santa Estasi, il progetto speciale diretto da Antonio Latella per il Corso di Alta Formazione di ERT, la lunga durata (dodici ore più le pause) è funzionale tanto al progetto didattico quanto alla sua restituzione scenica. Lo sviluppo dei singoli episodi, infatti, dà spazio ai sette drammaturghi e ai sedici attori selezionati per il progetto e allo stesso tempo facilita l’articolazione delle complesse vicende degli Atridi narrate dagli antichi.

Il progetto è diventato un “caso” fin dal suo debutto lo scorso aprile, e in particolare dopo la maratona che a giugno ha presentato gli otto episodi uno in fila all’altro, ore notturne incluse: da una parte perché propone una direzione (che potrebbe diventare un modello ripetibile) per percorsi di formazione di alto profilo, dall’altra perché segna un passaggio significativo nel lavoro di Antonio Latella, che sembra portare a un’efficace sintesi il proprio vocabolario di regista.
Una sintesi suggerita anche dall’uso dello spazio scenico: molti degli oggetti e delle attrezzature sono infatti recuperati da precedenti produzioni. Tra tutti, spicca la grande parete con porte e applique che definiva la “scatola” prospettica dell’Arlecchino servitore di due padroni, e che anche qui è utilizzata, monca, per definire una quinta e per le entrate e le uscite di scena.

Le azioni si svolgono in uno spazio rettangolare occupato da divani, sedie, tavoli, attrezzi da cucina e pochi altri oggetti, che vengono spostati e adattati alle diverse situazioni mantenendo sempre un’ambientazione domestica: siamo a casa degli Atridi, una casa dove si consumano discussioni e delitti sanguinari ma, nel frattempo, si guarda la tv, si beve vino e si cucinano polli e cavoli. Il grande tavolo attorno al quale si raccolgono gli attori all’inizio e alla fine dello spettacolo, in particolare, sembra essere l’elemento centrale e maggiormente duttile: desco per i banchetti, altare per il sacrificio di Ifigenia, nave in viaggio verso Argo, parete di fondo della cucina di casa di Elettra, in ogni episodio concorre a definire con agilità ed efficacia lo spazio scenico.

Nel suo insieme insomma, la serie di otto spettacoli Santa Estasi sembra proporre un compendio di strumenti di regia, drammaturgia e arte scenica. Perché il complesso di episodi della saga degli Atridi offre prove (tutte di altissimo livello) di come sia possibile costruire una relazione articolata tra pubblico e attori e di come sia possibile attraversare con un ampio sguardo i caratteri e gli stilemi del classico.
Lo dimostra anche la sfaccettata e complessa rappresentazione dei personaggi del mito, che punta su una resa immediata e simbolica delle loro caratteristiche interiori: Oreste è un bambino che geme al microfono mentre si consuma la morte della sorella Ifigenia, e un adulto che si pettina compulsivamente mentre uccide la madre; Clitemnestra una femme fatale in abiti attillati che si mostra nella sua crudeltà e debolezza, Cassandra, una ragazzina in vestitino rosso che predice il futuro giocando coi dadi. Latella si conferma, anche in questo caso, ottimo direttore d’attori, capace di valorizzare i punti di forza dei giovanissimi interpreti (tutti sotto i trent’anni).

Interessante è poi la rivisitazione delle strutture del classico, tanto dal punto di vista drammaturgico quanto da quello registico. Esemplare in questo senso è il ventaglio di soluzioni trovate per mettere in scena il coro, sempre presente sul palco ad assistere allo svolgersi delle vicende: da gruppo di osservatori che si confondono con il pubblico a plotone di donne che combattono, da vecchi ingobbiti tenuti insieme come manichini dalle stringhe delle proprie scarpe a uomini in nero che gridano all’unisono al ritmo di colpi di bastone. Anche i testi offrono reinterpretazioni disinvolte e ironiche della materia di partenza, esplicitando metateatralmente le difficoltà del rapporto con la drammaturgia antica: nell’Elettra di Matteo Luoni due donne in abiti eleganti e occhiali da sole si presentano come Coro 1 e Coro 2 mentre Elettra commenta “mi stanno accanto e non chiedermi perché”; o ancora, nell’adattamento dell’Agamennone di Riccardo Baudino, dopo un lungo testo recitato con grande pathos, coralmente, in greco, Egisto chiede a Clitemnestra, interpretando il pensiero del pubblico, “Ma che cosa hanno detto?”. Esilarante anche il coro composto da sette donne che interpretano all’unisono Elena nell’adattamento di Camilla Mattiuzzo: un canone di voci che, tra seduzioni, piagnistei e finte ingenuità traccia i caratteri di un personaggio scisso e schizofrenico.

Nelle lunghe ore di questa Santa Estasi sembrano moltiplicarsi le interpretazioni dei testi antichi, le soluzioni registiche, i personaggi, gli oggetti, gli attrezzi di scena, le musiche (anche dal vivo), le danze, le entrate e le uscite di scena. E negli specchi sul fondo del palco, che riflettono la sala creando nuove inquadrature e controcampi, sembra stare una tacita istruzione anche per il pubblico: moltiplicare il punto di vista, lasciarsi assorbire dalla varietà dei registri e guardarsi riflessi, sulle gradinate della platea, attraverso le antiche storie di ieri e di oggi.

Francesca Serrazanetti