Gemma Carbone (classe 1988), giovane attrice italo-svedese, è abituata all’apertura e all’incontro interculturale. Si è formata fra Londra, Milano e Udine, e ha già al suo attivo importanti collaborazioni: Chiara Guidi e Romeo Castellucci, la danzatrice Julie Stanzak (Wuppertal), Rodrigo García, il Nature Theater of Oklahoma, Tomi Janezic. Sfruttando il privilegio del suo doppio sguardo, nordico e mediterraneo, partecipa a progetti che coinvolgono Svezia, Norvegia, Italia e anche Grecia.

L’abbiamo incontrata a Milano, dove ha recitato con la compagnia Vico Quarto Mazzini in Little Europa (Tramedautore Festival, qui la recensione pubblicata su Stratagemmi) e abbiamo approfittato per farci raccontare la sua lunga estate greca con Lisistrata, diretta da Michaìl Marmarinòs. Lo spettacolo ha debuttato a Epidauro e ha poi attraversato la Grecia in una lunga tournée, per approdare infine all’anfiteatro di Erode Attico, ai piedi dell’Acropoli.

Quale è stato il tuo impatto con la Grecia e con Atene?
La Grecia è splendida, ma Atene in particolare mi è rimasta nel cuore. Certo, in alcuni quartieri si ha l’impressione di attraversare un mondo post-apocalittico, con scenari di disperazione. C’è però anche il volto di un’altra Atene, che vuole reagire e si è armata di consapevolezza, una sorta di resistenza “etica”: questo si vede soprattutto nei tantissimi che fanno ancora teatro, spesso con budget zero. Mi piace ripetere la frase di Marmarinòs: “Il teatro può cambiare la qualità della vita, cioè come percepisci e puoi esperire la realtà”. È questo che la gente in Grecia cerca e trova nel teatro. Ad Atene si respira una grande effervescenza, ci sono spettacoli ovunque e sale teatrali improvvisate, le compagnie nascono come funghi: sono rimasta sbalordita per le idee nuove, l’energia di rottura, la voglia di comunicare.

Come hai trovato il pubblico greco?
Ho visto code lunghissime ai botteghini, spettacoli sold out. È un pubblico di ogni età, molto presente, vivo e passionale: applausi a scena aperta, standing ovation, commenti ad alta voce, un po’ come succedeva nell’antichità. Per chi recita è un input meraviglioso.

Hai recitato nella sacralità di Epidauro: raccontaci.
Un’emozione fortissima. Certamente è un luogo magico, immenso, ma allo stesso tempo accogliente. Tutti noi attori abbiamo vissuto una strana sensazione: grande ansia durante le prove, a teatro vuoto, e poi, la sera, quando hai davanti a te, un muro di migliaia di persone sedute sui gradini di marmo, cala ogni preoccupazione. Quando finalmente entri nell’orchestra, ti senti avvolto in un abbraccio, intorno a te tutto è disposizione all’ascolto e partecipazione: un’atmosfera unica, che ti carica di energia e di senso.

Come è nata la tua collaborazione con Marmarinòs?
Per una fortunata coincidenza ho partecipato al suo progetto Nostoi – Histoires de retours et d’exodes (2013), una co-produzione Fabbrica Europa/TeatroEra/Théâtre National de Tunis, nei siti archeologici di Populonia e Cartagine. Durante Nostoi ho avuto il privilegio di vedere all’opera Marmarinòs, che considera la Nekyia omerica un testo fondante e l’anima di tutto il suo percorso teatrale – ad esempio l’anno scorso ne ha realizzata una messa in scena con il Teatro Nō di Tokyo (qui la recensione dello spettacolo). La discesa agli Inferi di Odisseo, impossibile da narrare in presa diretta, può solo essere evocata o ricordata; Marmarinòs lavora infatti sul paradosso-limite dell’ineffabilità. La Nekyia è per lui “teatro” perché è l’evocazione di un mondo altro, un rituale di avvicinamento che invita a farsi invadere dall’altro, in un dialogo-incontro impossibile.

Che cosa significa lavorare con Marmarinòs?
Per un mese e mezzo abbiamo lavorato sul testo. Michaìl ci chiedeva ogni giorno di ri-narrare ogni scena, con aggiunte, associazioni di idee, ricordi. Per lui la narrazione è “la chiave che ti proietta là dove l’evento è accaduto”. Ogni impulso sortito dall’immediatezza del momento (starnuto, pianto, risata, ricordo) può essere un tassello utile e necessario per raccontare la storia Alla fine ti ritrovi con un prodotto finale, costruito grazie alla ricomposizione di tutti questi piccoli, insospettabili “eventi”.

In questo processo Marmarinòs è un regista impositivo o democratico? Come interviene?
Segue una sorta di rituale misterico: alcune direttive le dice al gruppo, altre ai singoli e in segreto, perché resti salva la naturalezza delle reazioni collettive. Non ci interrompe per spiegare o condividere pensieri e consigli. All’improvviso, lancia un segnale. Ci ha iniziati a un codice, per cui ogni numero corrisponde a un’azione: ad esempio “due” può significare “in piedi!”. Il numero sollecita una reazione immediata, che può portare a sua volta ad altre risposte del singolo o del gruppo. È una struttura aperta che cresce grazie ai contributi spontanei di ognuno, stimolati da Michaìl: è per noi come un direttore d’orchestra, che – per dirla con parole sue – attende di “mettere la parola fine quando tutto è musica”.

E voi attori avete avuto la percezione di questa musica?
A un certo punto abbiamo capito che le nostre proposte si facevano sempre più “intonate” alla sua visione. Michaìl è preciso, estremamente affilato. Spesso ci ripeteva: “Recitare è costruire una trappola così precisa e dettagliata da poterci cadere dentro”. E infatti, alla fine, abbiamo provato quella sensazione indescrivibile per cui tutto il meccanismo funziona, in risposta alla sua visione.

Lo spettacolo Lisistrata ha riscosso in Grecia grandi consensi: è considerato da molti un punto di svolta nella ricezione aristofanea. Hai potuto osservare il processo dall’interno: com’è l’Aristofane di Marmarinòs?
Posso dire quello che non è: non è un Aristofane grottesco, burlesco, che punta al comico triviale. Marmarinòs anzitutto, ha voluto dar voce alla poesia di Aristofane: una forza naturale (in questo caso il sesso), più forte della politica, porta al riconoscimento di una condizione ingiusta come quella delle donne all’inizio della commedia. Grazie alla parola, attraverso una sorta di “verbalizzazione” della loro condizione, le donne si riconoscono come comunità che condivide una stessa esperienza. Da lì sviluppano un’idea , che si trasforma nell’horkos, cioè nel giuramento, che a sua volta diventa azione precisa. Poesia e politica in Aristofane sono strettamente legate: la parola è “rivoluzione”, la prima azione politica di una comunità. Questa attenzione maniacale di Marmarinòs alla parola e alla sua trasformazione “alchemica”, forse deriva anche dai suoi studi in biologia. È riuscito a far capire a noi e al pubblico quel meccanismo per cui un’idea, un sentire, cioè una condizione dell’animo immateriale, prima si fa suono, un complesso di onde di frequenza e poi, una volta condiviso con gli altri, diventa scintilla per l’azione e la reazione.

Tutto questo meccanismo è favorito dalla lingua greca?
Sicuramente: il greco è una lingua ricchissima di sfumature. Io non lo padroneggio ancora alla perfezione, ma in questa immersione mi sono resa conto della profondità delle parole greche. Essenziale è stato il lavoro di traduzione in greco moderno di Dimitris Dimitriadis, che ha mirato non solo al significato concettuale, ma al come la parola era stata formulata nel dettato antico.
Il greco ha una fisicità inattesa. Potrei dire che è una lingua “pericolosa”, perché ti cambia la prospettiva sulle cose. Ogni parola, ogni minimo suffisso, sono legati all’esperienza e a una pratica secolare: ad esempio ho sentito dire che l’antico santuario terapico di Epidauro potrebbe racchiudere nel suo nome l’idea dell’influenza benefica dell’aria per i pellegrini…
Essendo straniera, ho apprezzato questa concretezza delle parole con ingenuo stupore, riscoprendo anche la lingua italiana. Talvolta si creano strani cortocircuiti: ad esempio semantikòs ci suona familiare perché pensiamo a “semantico”, ma in greco significa “importante”; e così mystikòs non è “mistico”, bensì “segreto”, così le due dimensioni si avvicinano in una contiguità inattesa; è stato come ritrovare il peso originario delle parole. D’altronde Marmarinòs è inflessibile nell’uso esatto della parola: infinite ripetizioni per ottenere la precisione assoluta della pronuncia, dell’inflessione, dell’accento…

Qual è il tuo ruolo nella commedia?
Sono parte del coro, formato da quindici donne e cinque uomini. Inoltre in una scena interpreto una donna che viene dalla Magna Grecia per rispondere all’appello di Lisistrata, e porta un oracolo: questo ruolo interculturale è fondamentale nell’intreccio; sarà il giuramento che pronuncio, in un greco storpiato e caricaturale, a rendere coese le donne nel loro progetto.

Come ha gestito Marmarinòs il difficile personaggio del Coro?
Per lui il Coro è il protagonista, cioè svolge “la funzione scenica che serve a ricostruire un evento; il singolo personaggio serve invece al Coro per dettagliare l’evento”. Infatti nella nostra Lisistrata, a parte la protagonista (Lena Kitsopoulou), non c’è un ruolo fisso (ad esempio avevamo cinque Mirrine!), bensì un Coro mobile e continuamente frammentato. Tutto è un rimbalzo fra prima e terza persona, passato e presente, un meccanismo giocoso, naturale e divertentissimo. In questo modo risulta più facile e immediato entrare in contatto con una commedia che risale a più di duemila anni fa. Grazie a questo Coro ho avuto la possibilità di comprendere più a fondo una verità che appartiene al teatro: il ruolo non significa interpretare un personaggio, appropriarsi egoisticamente delle sue caratteristiche, è in realtà solo una prospettiva, un modo di presentare la storia.

Qual è stato il tuo rapporto con gli altri colleghi greci? È vero che hanno il teatro nel DNA?
Da tutti ho trovato ispirazione, e un calore di amicizia e condivisione che non avevo mai incontrato prima e spero di rincontrare presto. Amano il loro splendido Paese, il loro teatro, sono passionali e si accendono spesso in discussioni di politica. Affrontano le difficoltà del fare teatro con pragmatismo, un’energia contagiosa, tante idee e progetti. Nonostante i tagli alla cultura, c’è un fermento straordinario. In effetti “sentono” il teatro in modo più viscerale di noi. Questo particolare “sguardo greco” sul teatro vale specialmente per il pubblico, e mi ha commosso: fanno fatica ad arrivare a fine mese, ma al teatro non rinunciano.

Gilda Tentorio