Il celebre libro di Rem Koolhaas su Manhattan nella messa in scena di Office for a Human Theatre.

 

È possibile tradurre in uno spettacolo teatrale uno dei più famosi libri di architettura degli ultimi quarant’anni, magari rendendolo appetibile non solo agli architetti e a chi il libro lo ha già letto? L’arduo compito se l’è dato il giovane gruppo OHT – Office for a Human Theatre, che ha messo in scena Delirious New York (arrivato al Teatro Litta di Milano, nell’ambito della rassegna “Apache”, dal 12 al 15 febbraio), l’opera teorica più nota dell’archistar olandese Rem Koolhaas, padre di edifici in tutto il mondo ma anche scrittore, saggista e curatore di mostre.

Per il gruppo, fondato nel 2008 dopo aver vinto il premio nazionale per i giovani registi al Napoli Teatro Festival Italia, non è la prima incursione in questo campo. Filippo Andreatta, che è il direttore artistico, ha infatti studiato architettura al Politecnico di Milano e recentemente ha curato il progetto Squares Do Not (Normally) Appear in Nature, incentrato sull’attività del maestro del Bauhaus Josef Albers. Inoltre, pur spiegandolo come una «appropriazione indebita ai danni di Giorgio Strehler, in particolare del suo libro Per un teatro umano», il nome “OHT Office for a Human Theatre” sembra ispirato anche all’Office for Metropolitan Architecture (OMA), lo studio di architettura fondato proprio da Koolhaas nel 1975.

Pubblicato per la prima volta nel 1978 – e poi tradotto in diversi paesi, tra cui l’Italia nel 2001 – Delirious New York racconta la storia di Manhattan, luogo in cui dalla fine dell’Ottocento ha preso vita un esperimento urbanistico senza precedenti, fondato sul concetto di “congestione”. La congestione è quella che si viene a creare suddividendo lo spazio (finito) dell’isola in una rigida griglia di strade e sfruttando il più possibile ogni singolo lotto (block): il risultato è una selva di grattacieli diventata lo skyline più famoso al mondo. Pragmatismo americano, insomma, che piega la natura secondo le regole del profitto, che divide e moltiplica verso il cielo il suolo disponibile con lucida razionalità. Ma non solo. Infatti la lettura di Koolhaas, in bilico tra la ricostruzione storica e una sorta di psicoanalisi degli architetti/attori che concepirono gli edifici più importanti dell’isola, evidenzia più di un paradosso. Ad esempio emerge come la somma di tali e tante “razionalità”, dedotte dalla “logica della griglia”, finisca per sublimare in un laboratorio del fantastico, con all’interno frammenti utopici, fenomeni irrazionali, tracce di fantasie popolari, storie interrotte.

Il libro è pieno di allusioni, dirette o indirette, alla dimensione teatrale della Grande Mela. Per Koolhaas infatti Manhattan è un “teatro del progresso” nel quale si svolge un ciclico e inarrestabile passaggio dalla barbarie alla civiltà («ciò che è civiltà in un determinato momento, sarà barbarie nel momento successivo»). Per questo «la rappresentazione non potrà mai cessare e neppure evolversi come di consueto in una trama teatrale; sussisterà unicamente la riaffermazione ciclica di un solo tema: creazione e distruzione, irrevocabilmente congiunte e rimesse in scena all’infinito. L’unica suspense dello spettacolo deriva dall’intensità sempre crescente della rappresentazione».

Tale punto di vista viene seguito quasi alla lettera da OHT, che evita qualsiasi abbozzo di trama scegliendo di rievocare in ordine sparso alcune delle immagini presenti nei capitoli-atti del libro. A fare da Leitmotiv, fisico e metaforico, è il binomio costruzione-distruzione, richiamato in maniera povera ma efficace nella scenografia fatta di scatole di cartone, evocazione dei blocks e degli stessi grattacieli. Tra le pareti in mattoni della piccola sala del Litta – che con un po’ di fantasia ricorda un interno di Brooklin – le scatole vengono fatte saltare, cadere a terra e volare in aria al grido di “Fire! Fire! Fire!”, un “al fuoco!” che rievoca anche il Grande Incendio di Londra del 1666 o quello di Chicago del 1871: tragedie urbane dalle cui ceneri germineranno le città che conosciamo oggi.

Dopo il fuoco c’è l’acqua: indossati cuffia, occhialini e costume da bagno i quattro attori interpretano “la storia della piscina”, una delle parti più famose e suggestive del libro. Nel 1923, racconta Koolhaas, a Mosca fu costruita una grande piscina che si scoprì dotata di un’eccezionale peculiarità: nuotando all’unisono, essa si muoveva nella direzione opposta, secondo il principio di azione-reazione. Fu così che, quando giunse al potere Stalin, «gli architetti/bagnini decisero di utilizzare la piscina come mezzo di fuga verso la libertà. Grazie al già ben collaudato metodo dell’auto-propulsione, avrebbero potuto raggiungere ogni parte del mondo in cui vi fosse acqua.» La destinazione scelta fu Manhattan, che venne raggiunta quarant’anni dopo puntando ogni bracciata – secondo il suddetto principio idrostatico – in direzione del Cremlino.

Non poteva mancare neanche la famosa scena dell’amplesso tra due dei più famosi grattacieli dell’isola. Tra le illustrazioni più note del libro c’è infatti la serie dipinta da Madelon Vriesendorp, moglie e socia di Koolhaas, in cui viene raccontata la storia d’amore (o meglio, di sesso) tra il Crysler Building e l’Empire State Building, presto scoperta dal geloso Rockefeller Center, altra icona della scena urbana newyorkese. (La serie è anche stata trasformata in un breve cartone animato, che consigliamo di vedere su Youtube). Se i grattacieli diventano attori, sul palco gli attori diventano grattacieli vestendo degli inconfondibili copricapi, abbandonandosi in una romantica danza riproduttiva.

Compaiono poi, in ordine sparso, gli indiani e i cowboys (furono i primi a vendere Manhattan all’uomo bianco per 24 dollari); sua maestà l’ascensore (senza di lui il grattacielo sarebbe un oggetto inutile: chi potrebbe salire così tanti piani a piedi?); la statua della libertà; ecc. ecc.

Una parte viene dedicata anche al Downtown Athletic Club, edificio alto 160 metri costruito nel 1931 vicino a Battery Park, che diventa uno dei paradigmi della cultura della congestione: ognuno dei suoi 38 piani offre attività legate in diverso modo al corpo, dallo squash al biliardo, dai massaggi alla boxe, dall’elioterapia alla cura del metabolismo. Addirittura un vero campo da golf, al settimo piano. Scrive Koolhaas: «come in una coreografia astratta, gli atleti che si trovano nell’edificio vanno su e giù tra queste 38 messinscene – in una sequenza casuale quanto può esserlo solo quella di un ascensore – ciascuna dotata di un’attrezzatura psico-tecnica capace di ridisegnare il corpo umano». Il grattacielo, e con esso la città contemporanea, è una sequenza continua di messinscene nelle quali gli atleti/abitanti recitano una parte, determinata in larga misura proprio dalla scenografia, cioè dall’architettura.

Questo passaggio, così come tutti gli altri, è interpretato in maniera scanzonata dai quattro attori, che mimano una scomposta seduta di ginnastica facendo piegamenti sulle braccia davanti al pubblico. Dal primo minuto viene infatti dichiarata la leggerezza della pièce, che inizia (e continua) con ironiche parti di metateatro senza mai addentrarsi troppo negli intellettualismi koolhaasiani. E difatti, c’è una differenza sostanziale tra il libro e lo spettacolo: se il testo è un’opera epica, che narra le gesta di personaggi eroici (gli architetti di Manhattan) e creature mitiche (i grattacieli di Manhattan), il palcoscenico presenta quattro anti-eroi, quattro sgangherati ragazzi colti nel goffo tentativo di vivere la metropoli più metropoli del mondo. Se il libro di Koolhaas “vola alto”, tra citazioni colte e accattivanti, sagaci riletture dell’architettura newyorkese e progetti visionari, lo spettacolo di OHT – che dura in tutto una cinquantina di minuti – è fatto di brevi sketch, una barzelletta sugli indiani, reciproche prese in giro tra gli attori. Nel libro si scorgono esseri umani muscolosi colti nell’atto di mangiare ostriche, completamente nudi (sono i virili clienti del Downtown Athletic Club); al Teatro Litta invece l’uomo ha la pancetta e veste una maglietta sgualcita con scritto “I LAV NIU IORC”.

In questo alleggerimento, in questo downgrade, si perdono alcuni degli aspetti più interessanti del libro, come il rapporto – adeguatamente romanzato da Koolhaas – tra le vicende urbane e le biografie degli architetti di Manhattan. Oppure il tema del rapporto di attrazione-repulsione (questa volta non idrostatica) tra cultura americana ed europea, di cui lo stesso architetto olandese – e prima di lui Le Corbusier, Salvador Dalí, ecc. – è parte. Ma ciò avrebbe complicato sicuramente il lavoro degli attori e soprattutto del pubblico, che non per forza deve aver letto il libro. Pur così visibile, rumorosa e condizionante, l’architettura della “Niu Iorc” messa in scena da OHT finisce per rimanere ai margini, a farsi così leggera da essere modificabile con il palmo di una mano, ridotta a una versione tridimensionale del videogame Tetris. Il delirio, allora, non è più architettonico: esso torna a definirsi come uno stato confusionale che è prerogativa dell’essere umano, e difatti deliranti sono gli scambi di battute tra i quattro attori che – seguendo un’altra metafora architettonica, la Torre di Babele – parlano lingue diverse e non sempre si capiscono. Delirious New York si scopre essere un pre-testo, una scusa per raccontare uno spaesamento generalizzato dell’uomo e della donna nella città contemporanea, una condizione di incomunicabilità che porta a darsi molto da fare in maniera sconclusionata, sperando di finire almeno una volta sotto le luci della ribalta. Ma senza tanta retorica: sono cinquanta minuti che passano veloci. Per leggere tutto il libro di Koolhaas, ne servono molti di più.

Gabriele Neri