Dopo le polemiche e il “gran rifiuto” di Jan Fabre, il Festival Atene-Epidauro ha aperto i battenti, e si sono già visti spettacoli di spessore. In questo primo resoconto accostiamo due interessanti produzioni all’incrocio tra fantasmi di ieri e paure dell’oggi: 

  • La nostra classe, THOC Cipro, di Tadeusz Słobodzianek, regia Ghiannis Kalavrianòs (17-18 giugno 2016)
  •  Re-Volt Athens, ODC Ensemble, di Elli Konstantinidou (15-16 giugno 2016)

Sul terreno scivoloso e sensibile della Storia si muove il lavoro del THOC (Cyprus Theatre Organization), che tra febbraio e aprile 2016 ha presentato a Cipro, per la prima volta in greco, La nostra classe (2009) del polacco Tadeusz Słobodzianek, opera sconvolgente e pluripremiata in Europa, ispirata a eventi reali.

Era il 10 luglio 1941 quando a Jedwabne, villaggio a Nord-est di Varsavia, milleseicento ebrei venivano ammassati in una stalla, violentati, bruciati vivi o finiti a colpi d’ascia. L’eccidio fu attribuito alla violenza nazista, ma grazie alle ricerche tenaci di uno storico, la terribile verità verrà a galla sessant’anni dopo: i carnefici furono gli abitanti stessi del villaggio, con la “benedizione” del prete e delle autorità locali. Le motivazioni dell’orrore? L’odio di cattolici contro ebrei, nazionalisti contro comunisti, filotedeschi contro filorussi. Ma, al di là di ogni etichetta, si trattò di un massacro tra fratelli.

Mentre in patria si accendevano dibattiti e scontri politici, Słobodzianek (oggi direttore del Teatro Drammatico di Varsavia) riversava la storia in un dramma teatrale dal fortissimo impatto emotivo, che è testimonianza, schiaffo alla coscienza collettiva, risposta dinamica all’opacità del lungo oblio, e forse anche una ricerca di catarsi.

L’opera, portata in scena a Napoli (regia di Massimiliano Rossi) lo scorso gennaio per le celebrazioni della Giornata della Memoria, in Italia è passata in sordina; in Grecia invece ha colpito al cuore critica e pubblico. La caratura polacca della storia infatti si scioglie in un esercizio di riflessione attuale e necessario perché universale, che permette di confrontarsi con le proprie tragedie nazionali. Sono infatti cominciate quest’anno in Grecia le commemorazioni della guerra civile che lacerò il Paese dal 1946 al 1949, con una scia di orrori che ancora proiettano ombre inquietanti sul presente. Inoltre – e non è forse un caso – i diritti dell’autore polacco sono stati acquisiti dalla comunità greco-cipriota, segnata dal tatuaggio indelebile della memoria, che a Nicosia prende le forme del Muro e corre lungo la Green Line della separazione: una tragedia che continua a riaffiorare dalle fosse comuni dei massacri del 1974. Questo è l’orizzonte doloroso della Storia in cui si inserisce l’eco del drammaturgo polacco.

Con un rinvio all’archetipo della Classe morta di Tadeusz Kantor, il dramma si concentra sulla micro-comunità di dieci compagni di scuola, polacchi cattolici ed ebrei, che crescono insieme e poi gradatamente, presi nel vortice della Storia, cominciano a scrutarsi con ostilità e a scoprirsi ‘diversi’. “Tutti sappiamo che nei lager sono stati uccisi milioni di innocenti. Ma a volte anche i buoni fanno del male. Molto male. E se scopriste che in un villaggio a due passi da voi metà degli abitanti hanno massacrato all’improvviso l’altra metà?” si legge nel programma di sala.

Un gruppo affiatato di attori, un dinamico intreccio di parola e gestualità, una scena essenziale per disegnare i contorni di una tragedia universale: questa la ricetta del regista Ghiannis Kalavrianòs, che porta lo spettatore a riflettere sulle due metà della stessa mela e sugli assurdi meccanismi che plasmano il carnefice della porta accanto. Nessuno è malvagio per natura, ma ognuno compie delle scelte: “I colpevoli sono tormentati dal rimorso, ma dicono che non potevano fare altrimenti, cercando l’auto-assoluzione. Personalmente, ritengo però che ci sia sempre la possibilità di aprire una porta per una scelta diversa. L’opera del Maestro polacco ci insegna oggi che le ferite della memoria si possono ‘disinfettare’ solo con l’accettazione della verità”, ha dichiarato il regista in un’intervista (“Sigmalive”, 06.03.2016).

Ma oggi in Grecia la Storia pulsa anche nel respiro del presente, come ha mostrato il lavoro di Elli Papakonstantinou, direttrice ad Atene dello spazio culturale “Vyrsodepseio”, nato dalla riconversione della più grande conceria di pelli dei Balcani del XIX secolo: l’attività artigianal-industriale è sostituita ora dal gesto artistico (danza, esposizioni, musica, teatro). Dal 2011 questo è il quartier generale della compagnia ODC, orientata a progetti cross-culturali, interdisciplinari e politici in senso lato, perché dediti alla riflessione sulla polis. Riconoscibile l’impronta anche in Re-Volt Athens, performance ibrida (parola, musica, immagini), concepita inizialmente per un pubblico straniero: dopo Barcellona, Vienna e Berlino, si mostra ora ai greci con lo stesso intento di disegnare, fra tragedia e ironia, una ‘cartografia poetica di Atene’. Città-mito, cartolina patinata per turisti, ma anche metropoli caotica, simbolo di una Grecia schiacciata dalla crisi, sconvolta dai flussi di profughi e dalle manifestazioni di piazza. Volti opposti e complementari di un immaginario collettivo nutrito spesso di stereotipi.

Un’attrice (Roza Prodromou) illustra le meraviglie monumentali e paesaggistiche con la trita retorica da guida turistica ed effetti anche comici. Atene viene descritta a parole, evocata da un modello in miniatura e completata dalle immagini che scorrono sullo schermo. Il profilo idilliaco è punteggiato però di ombre, come nell’eloquente sequenza scelta anche per il teaser: in cima all’Acropoli sventola la bandiera ellenica, presto coperta da una nuvoletta nera, reale o disegnata che sia, metafora di un orizzonte torbido che inquina l’identità stessa della Grecia. La guida diventa un’ardente pasionaria che denuncia la tragedia del presente (disoccupazione, povertà, senzatetto, suicidi), sul filo di immagini e musica dal vivo, fino alla fortissima scena finale, sintesi perfetta delle intenzioni estetiche e politiche della regista. Ora stringe fra le mani dei serpenti, il suo viso si deforma in un urlo di rabbia e orrore, rappresentazione iconica di Medusa o della minoica Dea dei Serpenti, come ha osservato il critico Dimitris Tsatsoulis (“imerodromos”, 18.06.2016). Con un gesto irruente distrugge l’intera miniatura di Atene, mentre sullo schermo scorrono le immagini di manifestanti, scontri con la polizia e inferno di fiamme. Caos e catastrofe, distruzione di miti antichi e contemporanei. È la fine della civiltà? Piuttosto, un gesto liberatorio: dall’abisso può scaturire la rinascita e così, spazzata via l’Atene “degli altri”, è possibile forse aprire una nuova pagina.

Gilda Tentorio