Vi è mai capitato, nelle sale di un museo, di leggere assiduamente le didascalie per associare le opere agli artisti? Nei giorni del festival Periferico, funziona tutto un po’ al contrario: seguendo una linea rossa tracciata per le strade col nastro adesivo, le didascalie sono indizi che si incontrano per caso. La semplice attribuzione di nome, autore e data fa scoprire che un cartellone stradale, un dissuasore, delle saracinesche o un nido di ragno possono essere opere d’arte ready-made (Duchamp docet). Streetwalker, l’installazione del collettivo LJUD per Periferico, è un gioco che sembra interpretare con ironia, prima ancora dei numerosi appuntamenti delle tre giornate, la linea curatoriale del festival: creare relazioni inedite tra persone e luoghi, spostare lo sguardo, procedere per innesti per generare spazio pubblico.
Siamo al villaggio artigiano di Modena Ovest, creato nel secondo dopoguerra per dare un impiego alla tanta manodopera qualificata rimasta senza lavoro. Qui le case private si alternano alle officine, anch’esse private, senza interruzione: è un reticolo di strade in cui le pause sono date da sporadici spazi verdi e cortili. Oggi, la maggior parte degli stabilimenti è abbandonata e il paesaggio è quasi lunare: non solo manca lo spazio pubblico, mancano, per lo più, persino i marciapiedi.

LJUD, Streetwalker (Foto: Mario Carlini)

Dopo anni di peregrinazioni tra diversi luoghi ai margini di Modena, Periferico si è innestato in questo quartiere già dalla scorsa edizione e qui si ripromette di mettere radici almeno per il prossimo triennio, con un lavoro continuativo nella appena inaugurata sede #ovestlab: un community hub che sarà il centro di attività legate alle arti, performative in primis, ma anche al riuso, all’artigianato e alla formazione.
Quello ideato e diretto dal collettivo Amigdala (Federica Rocchi con Gabriele Dalla Barba, Meike Clarelli e Sara Gragnani) è un programma di cui interessa, prima ancora di entrare nel merito dei singoli appuntamenti, l’intento propriamente curatoriale, che si definisce con coerenza e chiarezza: la relazione tra le diverse pratiche esperienziali degli spazi apre domande e riflessioni che diventano parte sostanziale di un processo in divenire.

La domanda che ha dato vita a questa nona edizione dal titolo Alto fragile urgente riguarda proprio la relazione tra gli artisti e gli spazi, e come le arti possano attraversare i luoghi del reale generando degli spostamenti di senso, orientando gli sguardi, riattivando i luoghi. I momenti propriamente performativi si intrecciano all’auto-narrazione del territorio e a conversazioni dedicate alle pratiche della creazione; camminate e attraversamenti urbani – guidate da artisti, abitanti o esperti, abbattendo di frequente i confini tra le tre diverse categorie – si alternano a momenti di sosta in svariate sedi, mettendo a sistema due diverse modalità di esplorazione degli spazi.
“Delicatezza”, per riprendere il termine da cui è partito Leonardo Delogu nella sua conversazione, è allora una delle parole al centro di queste azioni: è l’ascolto attento di un luogo e la sua restituzione in una forma d’arte che lo interroga; è il rispetto delle modalità di inclusione oggi così richieste dalle pratiche di partecipazione ai processi creativi; è la messa a punto di dispositivi e di segni, anche minimi, capaci di spostare l’esperienza dello spazio e del tempo.

A fare da contrappunto alla centralità data all’esercizio della presenza e dell’incontro, la programmazione si muove con coraggio tra i nuovi linguaggi nella direzione dell’astrazione, rinunciando spesso alla presenza umana. Così OHT-Office for a Human Theatre in JA (riallestimento site-specific della loro installazione Squares do not normally appear in nature) attraversa la vicenda umana e artistica di Josef Albers, trasponendo sulla scena concetti e intuizioni di colui che esplorò la relazione tra colore e forma e insegnò, dal Bauhaus a Yale, non tanto a dipingere ma “a vedere”. Agli attori si sostituiscono bracci meccanici, luci, lampade, trenini elettrici, ombre e palette cromatiche, i cui movimenti sono controllati in remoto e accompagnati da estratti video e tracce audio. Questa macchina scenica ha il pregio di accompagnare lo spettatore, per frammenti, dentro all’opera astratta di Albers operando, coerentemente, per astrazione. Attraverso la restituzione di esercizi che indagano i principi compositivi che legano luce, colore, spazio e forma, il pubblico viene così sollecitato in un’esperienza che va al di là della pura osservazione.

OHT, JA (Foto: Stefano Santi)

L’attore è assente anche nei Racconti Americani proposti dai Muta Imago in forma di installazione “per suoni e immagini”: a Periferico sono stati presentati il secondo e il terzo capitolo della trilogia, Batleby e The River. Le opere letterarie diventano il punto di partenza per la creazione di un luogo di condivisione che si basa, ancora una volta, sull’immaginazione: alle parole, nella voce registrata di Riccardo Fazi, fa da cassa di risonanza la proiezione video in installazioni scenografiche ad hoc. In Bartleby, alla solitudine dello scrivano di Melville fanno eco le visioni di città, frammentate su uno schermo a bande verticali con diverse profondità, che creano un effetto di distorsione. Come in un racconto intorno al fuoco, il pubblico condivide ed esperisce la pratica dell’ascolto e dell’attivazione di un immaginario del tutto personale, in cui voci, suoni e immagini entrano in risonanza con lo spazio industriale e con gli ambienti del lavoro del Villaggio Artigiano.

Il performer è invece presente in carne e ossa in 40.000 cmq di Claudia Catarzi: qui, nell’ambiente ampio e spoglio di un’altra ex officina, la danzatrice esplora lo spazio racchiuso da un quadrato di due metri per due. I suoi movimenti geometrici sembrano inizialmente misurare lo spazio attraverso il passo, per poi diventare via via sempre più fluidi. L’assolo è pura ricerca del movimento nella sua relazione con il tempo e con un vuoto delimitato da un confine astratto, eppure del tutto materico. Il corpo, qui, si fa del tutto presente.

Claudia Catarzi, 40.000 cmq (foto: Mario Carlini)

Senza rinunciare a un’apertura ai più contemporanei e interdisciplinari linguaggi della scena, Amigdala, attraverso il festival Periferico, porta avanti un attento lavoro che parte dall’ascolto dei luoghi riaprendo spazi e creando relazioni con abitanti e realtà locali, in una concezione del tutto tridimensionale dell’esperienza artistica e della rigenerazione urbana. L’arte, sembra voler dimostrare, può diventare il punto di partenza per ri-abitare spazi privati e renderli collettivi attraverso la riattivazione dei sensi, cambiando la percezione del reale.

Nell’installazione curata dallo stesso collettivo Amigdala, l’indagine verte sul rapporto tra inconscio e realtà. Proprio come nel risveglio di quel substrato addormentato del Villaggio Artigiano, La disobbedienza dell’acqua raccoglie cento sogni degli abitanti del quartiere per restituirli, sotto forma di una suggestiva installazione, nello spazio abbandonato dell’ex officina Cavallini Radiatori. Frammenti di sogni si possono leggere nei messaggi lasciati nelle bottiglie, o ascoltare nell’intimità delle cuffie appese ai pilastri dell’enorme open space. Ma il tempo per ascoltarli è limitato a poche manciate di minuti. Come a dire che si può prendere parte a quella dimensione intima e personale, ma che tanto resta privato e da scoprire. Ed è quella parte di mistero che lascia aperte nuove possibili strade (e sfide) per il futuro del festival, già scritto in questi luoghi almeno per i prossimi tre anni.

Francesca Serrazanetti