Appunti sulla vita ordinaria di un mammifero 

compagnia Accademia Mutamenti
di Lina Prosa
con Sara Donzelli e Giampaolo Gotti
diretto da Giorgio Zorcù
collaborazione drammaturgia e spazio scenico: Claudia Sorace e Riccardo Fazi
visto al Crt Teatro dell’Arte di Milano_9-11 dicembre 2016

Domenica 11 dicembre a margine dello spettacolo al Teatro dell’Arte di Milano si è svolto un incontro con la drammaturga Lina Prosa condotto da Anna Beltrametti. Da questo momento di scambio tra pubblico e artisti nasce la riflessione di Sotera Fornaro, che ha partecipato al confronto con l’autrice:

Negli ultimi decenni la prassi del teatro post-drammatico e le riflessioni teoriche ad esso connesse (Hans-Thies Lehmann ed Erika Fischer-Lichte in primis) ci hanno mostrato che a nessuno si dovrebbe più chiedere di capire o spiegare una rappresentazione: non esiste, infatti, un significato univoco di un dramma, nemmeno nelle intenzioni dell’autore o del regista, perché i significati, in teatro, cambiano in ogni singolo momento della messa in scena e scaturiscono dall’influenza reciproca delle mutevoli reazioni fisiche e psicologiche di tutti coloro che partecipano all’atto teatrale, pubblico incluso. Il teatro post-drammatico si pone come teatro della trasgressione: poiché abbatte ogni confine, a partire da quello spaziale tra attori e spettatori, si può piuttosto definire teatro della soglia, cioè dell’attraversamento; teatro insomma di uno spazio intermedio, in cui ogni divisione (tra scena e platea come tra arte e vita) si infrange e si annulla. Non si tratta però della rivisitazione di un’antica metafora (il teatro come immagine della vita) e nemmeno di recuperare l’idea che il teatro sia luogo di artificiali magie: tutt’altro. Il teatro post-drammatico spinge a vivere secondo un rapporto mimetico rovesciato: non più l’arte imita la vita, ma la vita imita l’arte; è dunque lo spazio del possibile, non una realtà virtuale. L’esperienza estetica, in osmosi con quella esistenziale, ignora la fine dello spettacolo. Anzi: l’interazione che coinvolge, durante la rappresentazione, il drammaturgo, il regista, l’attore, gli spettatori, continua soprattutto dopo di essa. Si forma così una comunità nuova, che costituisce lo scopo più ambizioso dell’atto teatrale. Nel porsi questo fine, il teatro post-drammatico è esplicitamente politico.

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Ogni attraversamento contiene però una dose di pericolo: il “teatro della soglia”, mettendo in crisi qualsiasi sicurezza, si misura con l’angoscia; e affronta, in fin dei conti, la massima delle insicurezze umane, che nessuna spiegazione razionale o scientifica riesce a disciplinare, cioè il confronto con la morte. “L’elemento base del teatro è la trasformazione, dunque il teatro ha sempre a che fare con la morte e – quando riesce – è un esorcismo” ha detto Heiner Müller. La stanza del tramonto è una performance che ha appunto a che fare con la morte, o meglio: si tratta di uno studio sulla presenza della morte nella vita, cioè in scena. Il corpo dell’attore durante la rappresentazione diventa un corpo semiotico, segnato dall’invecchiamento, dalla malattia, dall’aspettativa della fine; l’attore non rinvia dunque a un personaggio, ma rappresenta una condizione esistenziale nella sua occasionale presenza. E pertanto agisce sul pubblico sortendo un effetto immancabilmente vicino all’angoscia. “Sconcertante” è l’aggettivo che ha utilizzato uno spettatore per definire questa performance nel dibattito al Teatro dell’Arte a Milano. Il pubblico infatti non comprende del tutto quel che ha visto, ma se ne sente contagiato nel senso più fisico del termine, esperendo esteticamente e quindi emotivamente quel che vede. In questo senso il culmine dello spettacolo è costituito dalla scena in cui i due attori (Sara Donzelli e Giampaolo Gotti), completamente nudi ed esposti, si lavano vicendevolmente, in un rituale che è insieme rievocazione ed esorcismo della morte. In nuvole di borotalco che infrangono, insieme all’oscurità, il limite immaginario tra platea e palcoscenico, si celebra il teatro del corpo, del suo confronto con la propria fragilità, con i propri desideri, con il loro dileguarsi, con l’amore nelle sue forme imprevedibili, con la memoria e le sue metamorfosi. Il testo diventa così un elemento (e non il centro) dell’evento teatrale e della sua complessiva atmosfera: un testo, scritto da Lina Prosa su sollecitazione della toscana Accademia Mutamenti – lo si può leggere in una bella edizione di Nardini editore (collana ‘Sottotesto sopra il Teatro’) –, in cui ogni frase e persino parola si apre a sempre nuovi significati nella percezione di chi lo ascolta (e di chi lo recita).

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Il tema, ossia il nucleo evocativo della performance, è la cura, intesa come la base arcaica, rituale, non scritta, dei rapporti umani e in generale tra mammiferi (il sottotitolo del testo suona infatti Appunti sulla vita ordinaria di un mammifero): quella di una madre per i figli e viceversa, della sorella per un fratello e viceversa, di un essere umano per un altro essere umano nel segno non della pietà, ma della condivisione paritaria della paura.
E solo la parola (poetica, simbolica, metaforica) può cercare di raccontare un universo così complesso: una parola che nello spettacolo è affidata a un fratello e una sorella, che si ritrovano dopo una vita di separazione, davanti a una porta opaca e chiusa, dietro la quale c’è forse la madre che sta morendo. Oltre quella barriera impenetrabile alla vista è celato il simbolo della madre, che ancora canta e, col canto, scompare oltre quel confine a cui tutti guardiamo sempre, escogitando mezzi rituali per varcarlo senza rimpianti e tremori. Il corpo della madre diventa allora feticcio di memoria conteso dal fratello e dalla sorella, che riscoprono così l’importanza del loro legame perso: e poiché durante la vita sono stati costretti a rinunciare alla reciproca cura, ne ritrovano il senso nell’aspettativa ormai non remota della fine, insieme a quei gesti quotidiani a cui solo può darsi il nome di amore. Così alla paura subentra, almeno per qualche istante, la gioia della festa e la rassicurazione dello stare insieme, insieme a una visione disincantata della realtà come teatro in cui a ciascuno è possibile trasformarsi in qualcun altro, senza rispetto per le norme sociali o di genere: la madre diventa figlia, il figlio diventa madre, la sorella diventa fratello. Della peculiare parola poetica di Lina Prosa abbiamo già scritto su questa rivista (https://www.stratagemmi.it/?p=9555), e in questa performance prende di nuovo vita in scena, dopo anni di lavoro comune tra autrice, regista (Giorgio Zorcù), attori (Sara Donzelli e Giampaolo Gotti), drammaturghi (i Muta imago, che hanno curato lo spazio scenico) e infine pubblico. Una pièce che si pone come esempio significativo di teatro post-drammatico e degli esiti che possono avere sulla scena contemporanea temi tragici classici.

Sotera Fornaro