Esistono linee di tendenza comuni alla drammaturgia italiana di nuova generazione? Quali sono i punti di contatto, le tracce che possiamo seguire tra le molte realtà emergenti, quali le corrispondenze metodologiche a cui guardare o, più semplicemente, le somiglianze tematiche e le difficoltà comuni rintracciabili nei lavori di chi si confronta oggi con la scena? Una possibilità di indagine su queste e altre questioni è stata offerta dai lavori presentati a Melting Milano, la rassegna che ha debuttato nella sua prima edizione a settembre all’Elfo Puccini e che ha visto protagoniste cinque giovani compagnie dalle diverse identità. Capofila del progetto, l’associazione culturale Ludwig: significativamente, una delle realtà under 35 riconosciute e finanziate dal Mibact. Insieme a lei Idiot savant, Eco di Fondo, Teatro Ma e Maniaci d’Amore. Guardando ad alcuni dei  loro lavori (Il silenzio dei cassetti di Benedetto Sicca, Il complesso di Telemaco di Filippo Renda e, infine, le Rotaie della memoria di Eco di Fondo) e, in particolar modo, analizzandoli nel rapporto che intrattengono con il contemporaneo, è stato possibile isolare alcuni tratti, se non pienamente rappresentativi, sicuramente significativi su cosa comporti fare teatro oggi.

Contaminazione

Non si tratta certo di una parola nuova per la drammaturgia, ma, oggi  più che mai, la possibilità di assorbire nella propria scrittura diverse influenze, anche provenienti da altri media, rimane conditio sine qua non nel rapporto tra teatro e attualità. Generi letterari, cinema, serie tv, riferimenti iconografici danno origine a forme espressive a volte frammentarie ma coerenti con il contemporaneo e la sua complessità, spesso sperimentali dal punto di vista delle strutture.              

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Ne è esempio lampante Il silenzio dei cassetti di Benedetto Sicca che nei suoi “ventotto quadri contingenti” chiama in causa uno dei generi narrativi tra i più rappresentativi e, allo stesso tempo tra i più capaci d’interrogare la contemporaneità: il romanzo giallo. Come ciò a cui è chiamato il protagonista (e insieme il lettore) di un romanzo giallo è un’operazione di ricomposizione degli indizi disseminati nel testo, alla medesima azione è invitato lo spettatore dello spettacolo diretto da Sicca. Seduto comodamente in poltrona, il pubblico segue una trama ma, a ben vedere, gli è negata la possibilità di avere da subito una visione d’insieme e dovrà pian piano mettere insieme i pezzi, fare per l’appunto uno sforzo intellettuale che colmi quelle lacune lasciate dal montaggio in una dimensione di continua incertezza speculativa rafforzata ulteriormente dal meccanismo di suspense. Reiterato in diverse scene, quello della suspense è un espediente che alimenta il desiderio di “conoscenza” e che, invece, viene costantemente differito e frustrato, in una sorta di implacabile dimensione da coito interrotto. Non sembra un caso dunque se nella prima scena assistiamo proprio a un rapporto sessuale dagli esiti ambigui: non solo l’amplesso si conclude in fretta (e viene consumato a distanza!), ma viene guastato dalla scoperta di una macchia di muffa sul materasso, che rompe ogni sensazione di compiuta serenità e appagamento. E se ancora si avesse qualche dubbio sull’intelaiatura “gialla” dello spettacolo basterà notare come elemento di scenografia centrale in tutto lo spettacolo è un telo semitrasparente che proprio in questa scena di incipit separa la platea dal palco, confinando la scena di sesso in una dimensione ipotetica e quantomeno voyeristica: come se si stesse assistendo a qualcosa di illecito (sarà un rapporto sessuale o un delitto?). È proprio il telo dunque a segnare il legame più evidente col genere: lo fa nel cosiddetto disvelamento, il meccanismo risolutivo che caratterizzava il finale dei gialli classici – quelli per intenderci ad enigma per lo più di matrice inglese – e che poi, con l’avvento del noir, cambia la sua funzione diventando elemento costitutivo in absentia. Ed è esattamente questo processo di progressiva estinzione del disvelamento ciò che si verifica nel Silenzio dei Cassetti, dove non esiste più una visione certa e univoca della vicenda, nemmeno in conclusione: quando, finalmente, il telo lascia la scena e passa in platea sopra le teste degli spettatori non avviene nessuna rivelazione se non quella che il pubblico stesso fa parte dell’universo ambiguo e polisemico messo fin ora in scena.

Il rapporto con il contemporaneo passa dunque attraverso il filtro di genere non per essere semplificato, ma, al contrario, per essere tradotto e compreso in tutta la propria, dirompente, complessità. Il genere è dunque griglia, chiave di accesso, decodificatore: lo si nota soprattutto tra una scena e l’altra quando sentiamo provenire dagli attori/personaggi suoni e mugugni, espressioni prive di senso che non servono solo ad aumentare la dimensione straniante dello spettacolo, ma che rappresentano il continuum fonico del mondo in cui siamo immersi. Solo quando inizia una nuova sequenza narrativa questi suoni si fanno comprensibili e poi battuta di senso compiuto: la parola non è più appannaggio di un singolo personaggio(tanto che spesso gli attori si fanno eco gli uni con gli altri ripetendo frammenti della stessa frase), ma diventa elemento imprendibile e collettivo, segno della dimensione polifonica del mondo.  Siamo di fronte a un vero e proprio noir della parola!

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Anche nel Complesso di Telemaco di Idiot savant (tratto dall’omonimo libro di Massimo Recalcati) ci si trova di fronte a un caso di contaminazione di linguaggi. Qui però il gioco con il contemporaneo si fa ancor più esplicito. Abbondano infatti i riferimenti alla cultura pop e, in particolar modo, all’universo filmico, tanto che gli appassionati di cinema si possono divertire durante la visione a indovinare quali sono i lungometraggi da cui sono tratte – letteralmente – le battute del novello Telemaco protagonista della pièce. Chi riesce nel quiz, noterà una certa influenza pulp con i classici titoli tarantiniani, ma anche quella di altri evergreen del genere gangsteristico come I soliti Sospetti (1995) di Bryan Singer o Quei bravi ragazzi (1990) di Martin Scorsese. Non si tratta di un caso: sono film dove i personaggi hanno tratti già marcatissimi (si pensi al ruolo iconico e riconoscibilissimo di De Niro in Taxi Driver) e questo citazionismo drammaturgico-cinematografico si rivela così qualcosa di più che un divertissment per cinefili.  Unito alla recitazione sovraccarica degli interpreti, all’utilizzo del demenziale e del non-sense, il citazionismo genera infatti un scarto di senso portando lo spettacolo su un piano non solo critico rispetto al contesto di riferimento (il presente) ma satirico rispetto alla stessa dimensione performativa in atto. L’interpretazione dei due attori in campo non è dunque semplicemente “sopra le righe” ma si potrebbe definire “oltre le righe”, si fa cioè strumento sia meta-teatrale sia meta-recitativo. Ciò a cui ci si trova ad assistere è, a ben vedere, un teatro che interpreta una realtà già contaminata da un altro mezzo “interpretativo” come il cinema: quanto accade in scena non è quindi una semplice rilettura del mito di Odisseo e Telemaco, ma una riflessione su come in questa fase storica, come mai prima d’ora, la cultura di massa sia soggetta a una stereotipia di modelli culturali che vengono generati e che a loro volta influenzano le nuove produzioni. In questo cortocircuito, l’unico strumento di osservazione – sembrano dirci gli Idiot savant – è dunque il demenziale, il chiamarsi fuori da qualunque percorso logico-razionale piano.

Ecco allora che, come avveniva con Il silenzio dei cassetti, ci troviamo, anche in questo caso, di fronte a una multi-stratificazione: se nello spettacolo di Sicca però tale frammentarietà si sviluppava soprattutto a livello orizzontale (i famosi quadri che non permettono a una consequenzialità immediata) qui, pur conservando un’unità spazio-temporale precisa, ad essere disarticolata  è la comprensione razionale, il livello logico, l’asse verticale. Risultato comune: un universo aperto e privo di certezze. Sono gli stessi protagonisti, per primi, a  sembrare sbigottiti e increduli degli esiti del loro agire scenico.

Il rapporto tra generazioni

“Noi siamo i figli dei padri ammalati” scriveva Emilio Praga nella poesia-manifesto della Scapigliatura. Ed è un insegnamento tutt’ora valido: ciò a cui sono chiamate da sempre le nuove generazioni è un sano conflitto con la tradizione artistica imposta dai genitori, “putativi” e non. Quello del confronto tra generazioni è un tema che non può dunque mancare in una drammaturgia che si vuole nuova, anche solo anagraficamente parlando. Eppure siamo sicuri che le nuove leve un confronto con questi “padri” lo abbiano mai avuto? E ancora di più: hanno mai avuto dei veri genitori? Questioni tutt’altro che scontate in un’attualità dove i modelli di riferimento si moltiplicano sui rotocalchi o sugli schermi televisivi, guadagnando di numero e perdendo però in consistenza. Non è un caso allora se proprio il tema del rapporto tra generazioni è al centro di molte opere a cominciare da quel Complesso di Telemaco di cui abbiamo parlato poc’anzi. Lo spettacolo di Filippo Renda e Mauro Lamantia tratta in effetti proprio i temi dell’assenza della figura paterna e il problema dell’eredità che le generazioni precedenti lasciano a quelle successive. Ma se le questioni sono potenzialmente drammatiche – tanto che, vuoi per il richiamo alla Sicilia, vuoi per la tematica familiare problematica tornano in mente alcuni lavori di Emma Dante – il registro con cui vengono trattate, lo abbiamo visto, è quello del demenziale, delle tinte forti e di un consapevolissimo sovraccarico di citazionismo.

Anche ne Le rotaie di eco di fondo il problema generazionale e la trasmissioni dei valori sono centrali, ma si trovano a fare i conti con un linguaggio scenico completamente diverso: quello del teatro di narrazione chiamato a rappresentare non tanto il presente quanto la Storia, seppure recente, del nostro paese e l’esperienza “resistente” e biografica del partigiano Albino Calletti. Se l’oggetto d’indagine, rispetto agli altri due lavori, risulta dunque mutato dal presente al passato, tuttavia il contemporaneo rimane pervasivo nel modo, nello sguardo, nel tipo di ricerca che viene operata. Ce ne si può rendere conto proprio in apertura di spettacolo, quando ci troviamo di fronte a una sorta di “intervista doppia”, che è allo stesso tempo incipit e dichiarazione metodologica: qui Giulia Viana (che è interprete e allo stesso tempo personaggio) rivela in un gioco meta-teatrale le prospettive ormai inconciliabili tra lei, ragazza che appartiene a una generazione giovane e quella del Calletti, testimone e rappresentante di valori in via d’estinzione.

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L’unica via praticabile per un rapporto tra generazioni, sembrano dirci gli Eco di fondo, è la tradizione, la pratica cioè di tramandare la testimonianza della vita di un uomo che quei valori li ha vissuti, se li è conquistati, patendone le conseguenze sulla propria pelle. Un trasmettere che assume su di sé una finalità evidentemente didattica, ma nell’accezione migliore del termine: si premura cioè di insegnare che anche qualora venga meno una prospettiva condivisa, sia necessario accettare innanzitutto una diversità di opinione (o prospettiva) per poi comprenderne le ragioni, nella speranza che, se sono buone, un giorno possano diventare le proprie. Il refrain dello spettacolo (“Perché sì” non è una risposta!) è in fin dei conti l’eredità più importante del Calletti: la curiosità, l’interessarsi a ciò che ci circonda senza ripetere come cocorite (un po’ come invece accade al Telemaco di Renda) modelli pre-cotti-confezionati-e-digeriti. Un insegnamento che lo spettacolo rivolge con ogni evidenza alle fasce di pubblico più giovani, ma che può sicuramente risultare di una qualche utilità anche allo spettatore più maturo.

Interessante constatare come l’impossibilità anagrafico-storica nel condividere lo stesso orizzonte di valori, comporti tanto nelle Rotaie della memoria quanto nel Complesso di Telemaco, l’abbandono di una prospettiva realistica in favore di un’impostazione surreal-favolistica. Lo sguardo sul presente non sembra più passare, nemmeno in ambito storico, attraverso la sfera ideologica o politica, bensì viene filtrato da una dimensione diversa, più intima e personale. L’aspetto affettivo-familiare diventa dunque determinante ai fini di qualunque trattazione: Giulia (la protagonista delle Rotaie della memoria), interrogandosi sul perché si trova a parlare del Calletti, di quell’uomo così distante da lei, si risponde significativamente: “perché, man mano che lo intervistavo, mi accorgevo di essermi affezionata a lui, di volergli bene!”. In maniera analoga l’opera di Sicca verte completamente su rapporti interni a un gruppo d’amici e sul desiderio di fondo di essere amati e accettati, lo stesso identico leitmotiv sotteso al Complesso di Telemaco. Sembra quasi di percepire che di fronte al “disgregamento della polis”, diventi fondamentale, anche teatralmente, il ruolo di comunità ristrette dove ad essere centrali non sono più le macro imprese politiche, né gli ideali, ma le piccole dinamiche emotivo-sentimentali che scorrono carsicamente dentro e fuori la scena. Che le nuove generazioni teatrali siano costrette a scoprirsi sentimentali?

Corrado Rovida