di Corrado Rovida e Francesca Serrazanetti

Santarcangelo e la fenomenologia del “ci sei o ci fai”
di Corrado Rovida

“Guardare non è più un atto innocente”, “Sarà come non poter distogliere lo sguardo dagli occhi di Medusa”: mentre si cammina per Santarcangelo non si può fare a meno di notare le frasi scelte dal Festival dei Teatri per promuovere l’edizione 2015. Non sono titoli. La direzione è stata chiara: si tratta più che altro di vademecum per lo spettatore ideati da Romeo Castellucci (vedi alla voce Societas Raffaello Sanzio), il cui scopo è quello di interrogare chi guarda e invitarlo a prendere posizione rispetto a ciò che vede.
A non voler prestar orecchio alle dichiarazioni di intenti e ai buoni propositi, la prima impressione è quella di un’operazione promozionale che gioca con slogan politici dal “retrò-gusto” di matrice simil sessantottina: frasi ad effetto la cui dirompenza, chioseranno i più diffidenti, staziona su un liminare viscoso, a metà tra l’impegno e l’artificio retorico del buon piazzista. Meglio non essere troppo severi: l’aura del festival di Santarcangelo, seppur leziosa, sembra davvero racchiudere un’autentica impronta di idealismo, ragione sufficiente, in anni di postmoderno e di pubblicità-provocazione a sfondo sociale (Benetton e Oliviero Toscani su tutti), almeno ad attenuare i j’accuse più radicali. Vero è che l’ambiguità sibillina generata dall’assenza di un’intestazione e da quei motti para-contestatari fa affiorare tra i partecipanti più smaliziati una domanda tanto ordinaria quanto legittima: “Santarcangelo dei Teatri sulla politica ci è o ci fa?”
La questione è assai meno capziosa di quel che può apparire di primo acchito: la crisi economica, la sfiducia delle masse nei confronti delle istituzioni, “l’antipolitica” sbandierata come unico vessillo di onestà dietro il quale radunare l’elettorato mettono in evidenza come uno dei temi chiave della politica attuale sia proprio quello che riguarda l’essere e l’apparire, la realtà e la finzione. È ancora possibile schierarsi senza avere più la certezza (quasi dogmatica) delle ideologie? Cos’è oggi gestire la polis e la cosa pubblica? È solo questione di credibilità? E se sì, si tratta di una credibilità del progetto o delle parole dei singoli? Quali sono gli effetti diretti di un agire politico e quanto può partecipare il cittadino comune?

Ci fai? È solo surrealismo, baby!
Some use for your broken clay pots è la conferenza-performance di Christophe Meierhans, un giovane artista svizzero che ha deciso di presentare al pubblico un nuovo modello politico che sostituisca quello elettivo attualmente vigente in molte democrazie europee. La sua proposta poggia fondamentalmente sul principio di squalifica, un metodo che, come suggerisce il titolo, fa proprio e aggiorna l’ostracismo in voga nell’antica Grecia. In una sorta di democrazia diretta (i 5 stelle sono avvisati) i cittadini, come in un grande e disciplinatissimo gioco di società, sono chiamati a disconoscere l’operato dei governanti qualora questi ultimi li deludessero. C’è di più: in caso si ritenessero all’altezza del compito, potranno perfino sostituirli in prima persona attraverso un complesso iter procedurale che prescinde il grado di istruzione, di competenza, la disponibilità economica, ecc. Per Cristophe uno vale uno. Il pubblico è pregato di intervenire in qualunque momento con domande e osservazioni affinché il giovane svizzero possa chiarire i punti più oscuri del suo sistema di governo, il quale, nell’arco di un paio d’ore e con l’ausilio di un antiquato proiettore di lucidi, viene illustrato con impeccabile serietà e rigore. È incredibile constatare come la partecipazione degli spettatori non solo sia vibrante, propositiva, talvolta perfino entusiasticamente aderente al modello proposto, ma rimanga inalterata e concentrata anche quando alcuni vasi, cadendo dall’alto, si frantumano a pochi centimetri dal relatore. Christophe, a sua volta, ça va sans dire, non si scompone e continua a rispondere a ogni quesito come se niente fosse accaduto. Sembra quasi che assuefatti da politici imbonitori, comizi-performance e scene madri in parlamento, il coefficiente di surrealismo che il cittadino italiano è disposto a sopportare sia ormai altissimo. Poco importa allora se colui che sta di fronte è un attore e se il suo convincentissimo programma è disseminato di piccole ma determinanti incoerenze, contraddizioni spietate, provocazioni camuffate (la nomina di un possibile candidato avviene attraverso una vera e propria lotteria, lo strumento per monitorare il livello di squalifica è un social network chiamato “statebook” e così via): la sua credibilità apparente è forte e tanto basta per poter dare verosimiglianza al suo disegno politico. Del resto Cristophe è bravissimo a confondere le acque prolungando fin oltre lo spettacolo l’ambiguità della sua performance: all’uscita è possibile acquistare la costituzione del nuovo assetto istituzionale, firmarla e stipulare così un contratto vincolante. Straordinario e inquietante.

Ci sei? Un tempo sicuramente ci ero
Our secrets della compagnia del talentuoso Béla Pintér è invece uno spettacolo più tradizionale: il tema politico è trattato all’interno di una narrazione che vede protagonisti alcuni cittadini ungheresi sotto il regime comunista degli anni ’80. All’ombra dell’egida scenografica di un implacabile e mastodontico registratore a nastro (quasi una citazione cinematografica che richiama nell’estetica Metropolis e Tempi Moderni, concettualmente il più recente Le vite degli altri) vengono trattati i drammi privati di alcuni personaggi legati all’ambiente culturale di una sala da ballo dove si fa musica folk tradizionale ungherese. Qui la politica si fa simbolo, o meglio, sintomo: viene descritta attraverso gli effetti che produce sull’uomo. L’ideologia, se corrotta, sembra suggerire Pintér, diventa cancro insanabile che intacca dapprima la corteccia intellettuale (la musica, la poesia, la stampa) per poi arrivare più a fondo, inoculandosi nella sfera emotiva. È così che anche l’amore diventa difettoso, guasto, interessato e, comunque, sempre subordinato alla propria sopravvivenza. Non è un caso allora se il rapporto con le nuove generazioni si fa conflittuale e, in fin dei conti, cupo e fallimentare. La pedofilia di uno dei protagonisti, filone centrale della vicenda, è forse da leggere proprio in tal senso: sotto un regime repressivo vige l’impossibilità di poter amare il proprio presente e, allo stesso tempo, l’incapacità di riuscire a relazionarsi in maniera sana e costruttiva con chi rappresenta un futuro diverso, ancora, potenzialmente, libero.

Aut aut – Et et
Scegliere di portare avanti un festival è già di per sé una presa di posizione netta: politica in prassi. Le difficoltà economiche da affrontare e le (in)evitabili critiche che ne conseguono, talvolta faziosamente strumentalizzate – si veda la querelle puritana, ai limiti del bigottismo, circa la “fontana umana” di Tino Seghal andata in scena in piazza Ganganelli – ne sono la più viva testimonianza. Il problema di indeterminatezza rimanda allora a una questione di forma, di disomogeneità strutturale. Ed è forse questo il limite maggiore di una manifestazione che apparendo talvolta trascurata (gli allestimenti inesistenti delle mostre-progetto esposte all’interno della scuola elementare Pascucci ne sono l’esempio più evidente) e altre un po’ frettolosa (vedi le Audio guide di Cristian Chironi: una buona idea che evapora in fase realizzativa) rischia di fiaccare l’attendibilità conquistata con l’impegno, l’encomiabile militanza e alcune ottime scelte artistiche. Santarcangelo dei Teatri ci è o ci fa? La risposta, a ben vedere, è racchiusa in un principio di naïveté che non prevede alcun aut aut, semmai calcolata quanto generosa inclusione.

 

Teatro e realtà, tra ripetizione e trasposizione
di Francesca Serrazanetti

Il valore politico degli spettacoli del festival si intreccia con una tematica di per sé inscindibile dall’evento teatrale, ma che sembra assurgere a tema specifico di indagine trasversale, ovvero il limite tra realtà e finzione, tra l’originale e la sua ripetizione e/o trasposizione per la scena.
Le ricerche degli artisti selezionati nel programma di quest’anno, dei quali continua a mantenersi una provenienza spiccatamente internazionale, attingono da diversi linguaggi e poetiche, tracciando ritratti sulle situazioni socio-politiche dei propri paesi d’origine in modo marcatamente diverso.
Da questo punto di vista è interessante constatare la misura variabile con cui la realtà viene portata in scena in modo diretto o meno, giocando sull’equivoco della rappresentazione e dei diversi registri linguistici, divenendo (talvolta) pura ricerca artistica.

È il caso di una delle presenze più interessanti del festival, l’iraniano Amir Reza Koohestani. Timeloss nasce dalla volontà del regista di rivisitare uno spettacolo portato in scena diversi anni prima, Dance On Glasses (2003) – che lo rese noto al pubblico internazionale, incluso quello di Santarcangelo dove andò in scena nel 2005 – in cui si raccontava una sofferta separazione. Piuttosto che riprendere l’originale, Timeloss porta in scena il tempo trascorso: due attori (diversi da quelli di allora) siedono a due tavoli guardando il pubblico e ripetono quello che all’apparenza può sembrare il reiterarsi di battibecchi quotidiani. La ripetizione invece è quella di un copione, del testo originale dello spettacolo che i due, dopo dodici anni, sono chiamati a doppiare, sulla base di un video originale dall’audio mal riuscito.
Il palco è diviso in due parti tra loro quasi speculari: due aree nettamente separate grazie alle luci che definiscono due quadrati, due stanze dalle pareti invisibili ma invalicabili. Del lungo tavolo al quale sedevano i due performer di Dance on Glasses qui si vedono le due estremità, esito di un’unione esplosa inesorabilmente. Esattamente dietro agli attori, su due schermi verticali, si proiettano le riprese dello spettacolo originale. Il continuo passaggio tra doppiaggio e discorsi reali, in cui i due rimuginano sul passato e sulle proprie scelte, tentando di colmare quella distanza ormai insuperabile, è del tutto riuscito: un escamotage che, nell’apparente semplicità dell’operazione, va ben al di là del divertissement portando con sé una riflessione sulla memoria e la ripetibilità dell’evento performativo, sul passare del tempo nella vita e – aspetto ancora più interessante – nel teatro. Sullo sfondo della vicenda, la realtà socio politica iraniana – in particolare censura e libertà di espressione – emerge tramite i dialoghi, anche nel confronto tra due momenti storici diversi.

In modo diverso, sul crinale della danza, indaga il rapporto tra reale e finzione l’israeliano Arkadi Zaides in Archive.
Zaides attinge dai materiali video del B’Tselem Camera Project: si tratta di filmati ripresi da cittadini palestinesi che vivono nelle zone del conflitto, testimonianze dirette e quotidiane sulle condizioni di vita nei territori occupati. È il performer stesso a guidare lo scorrimento dei video (e delle relative didascalie d’archivio) e a isolarne alcuni fermo-immagine, prendendosi il tempo necessario ad assumere le posizioni dei soggetti immortalati. Il conflitto acquisisce così un codice di lettura che va oltre i fatti in sé per concentrarsi sul linguaggio del corpo. Quali sono le posture della guerra? Quale energia, quale movimento, quale espressività hanno i corpi di vittime e carnefici? L’archivio video si moltiplica così pian piano in un archivio fisico, e poi anche sonoro, abdando a comporre un atlante del linguaggio del corpo in contesto di guerra. I presupposti alla base del lavoro sono interessanti, ma il limite dello spettacolo sta nella ripetitività del meccanismo, a cui corrisponde una troppo limitata trasposizione coreografica: ci si aspetta continuamente un’evoluzione, capace di trasformare quella semplice duplicazione in una reinterpretazione critica del reale.

Politica, reazione con il reale, rapporto singolo-colelttività sono i temi di fondo di questo festival, che mantiene forte la sua identità nel rapporto con la “piazza”, con tutto quello che essa rappresenta. La chiave di lettura parallela, di cui questi due spettacoli sono casi emblematici nelle loro peculiarità, sta proprio in questo limite sfocato tra realtà e finzione, tra l’ “originale” e la sua reinterpretazione. Sia l’originale la vita, la politica o – per assurdo – il teatro stesso.