Lo spettacolo comincia 24 ore prima che lo spettacolo cominci: WhatsApp notifica l’arrivo di alcuni messaggi che indicano cose da fare, ascoltare, guardare, raccogliere, prima dell’appuntamento per l’ora prestabilita. È una sorta di pre-engagement dello spettatore quello che precede il vero e proprio inizio di The invisible city, il nuovo progetto performativo di Daniele Bartolini, attore-regista fiorentino oggi attivo a Toronto. Con la sua compagnia DopoLavoro Teatrale ha coniato la dicitura audience-specific theatre: un teatro fatto per lo spettatore, che si adatta e trasforma a seconda di chi lo ‘pratica’. Lo scorso anno a Kilowatt Festival aveva presentato The stranger, una camminata per uno spettatore per scoprirsi ‘stranieri’ in una città. Quest’anno, il pubblico si allarga a cinque spettatori a replica, in un percorso che attraversa un palazzo abbandonato e incoraggia a esplorare, ad attivare i sensi, a esperire e condividere un pezzo della propria interiorità.

The invisible city, foto Luca Del Pia

Lo scenario evoca le atmosfere del film Stalker di Andrej Tarkowskij che, come ci racconterà lo stesso Bartolini, è stato un’importante ispirazione per questo lavoro e per tutto il suo percorso artistico: la “Zona” del film, quello spazio introspettivo e inaccessibile che è specchio della mente umana, qui è “un luogo con una presenza di vissuto abbandonato, che gli spettatori devono riabitare”.
Nella solitudine di questi ambienti cinque sconosciuti si incontrano: la scoperta dell’altro avviene attraverso l’alternarsi di silenzi e domande, seguendo le indicazioni che ci vengono trasmesse da cinque guide/performer di Sansepolcro (coinvolti anche l’anno scorso in The Stranger): un artista visivo, una danzatrice, due attrici e una performer sordomuta. Con loro Bartolini, insieme all’aiuto regista Gilda Foni, ha svolto una residenza di dieci giorni – nell’ambito di un progetto di residenza sostenuto da SIAE Illumina, a cui “Stratagemmi” partecipa con un percorso di osservazione – per sviluppare il lavoro e adattarlo alle esigenze del luogo e agli attori. Lo spettacolo è infatti in trasformazione per sua natura, trovando di volta in volta location e interpreti differenti.

The invisible city, foto Luca Del Pia

Gli strumenti di questa drammaturgia in divenire sono delle tracce per lo più in forma di domanda, delle torce per orientarsi nel buio, dei gessi e delle penne per scrivere sui muri. I suoi nodi tematici principali invece, la memoria e il desiderio: due categorie che derivano dalle Città Invisibili di Calvino che danno il titolo allo spettacolo, e che diventano i punti di appoggio per questo viaggio introspettivo audience-specific. Rinunciando a presenze propriamente performative, lo spettacolo si crea infatti, a ogni replica, attraverso le parole e le azioni degli spettatori, nella condivisione dei propri ricordi e delle proprie ambizioni. Ogni ambiente sembra costituire una diversa città: c’è quella in cui stare in silenzio, quella in cui raccontarsi, quella in cui ballare, quella in cui sentire la presenza dell’altro in uno spazio completamente buio, quella in cui abbandonarsi ai ricordi e quella ancora da inventare.

Dopo il debutto, Bartolini è già rientrato a Toronto, dove lo spettacolo debutterà il prossimo 3 agosto, in una nuova forma più estesa, al SummerWorks Performance Festival. Lo abbiamo raggiunto per una conversazione via Skype, per approfondire le origini di questo percorso e raccogliere i punti centrali del suo lavoro, tra Italia e Canada.

The invisible city, foto Luca Del Pia

Come nasce la vostra idea di audience specific theatre?
Abbiamo coniato questa dicitura per differenziarci da un più ampio contesto di teatro immersivo o site-specific. Il nostro obiettivo è riattivare il dialogo tra artista e spettatore: è stata la nostra prima necessità nel momento in cui ci trovavamo spesso davanti a spettacoli autoreferenziali, che segnavano una distanza e arrivavano a circoscrivere una comunità teatrale molto piccola, spesso ridotta a un gruppo di addetti ai lavori. Abbiamo quindi ricercato un dialogo partendo dall’individuo. La nostra pratica artistica opera in una progressiva sottrazione: abbiamo tolto il luogo teatrale, poi i costumi, poi le battute, per attivare tutto il resto. I nostri spettacoli essenzialmente offrono degli stimoli. Dopo il lavoro uno a uno di The Stranger in The invisible city siamo arrivati a rimettere assieme una piccola comunità: cinque persone che non si conoscono si mettono a nudo e, partendo da una non-conoscenza, arrivano a lasciare all’altro qualcosa di sé. È un lavoro sull’umano che cerca di rimettersi in contatto con una società che tende all’isolamento o impone la presenza di un filtro, dialogando su WhatsApp o su Skype, come stiamo facendo noi adesso.

L’uso di questo filtro digitale è però anche parte del vostro lavoro. La prima parte di The invisible city si svolge proprio via WhatsApp. Perché questa scelta?
È la prima volta che sperimentiamo questo pre-engagement di 24 ore, per riuscire a instaurare fin da subito un dialogo e attivare dei pensieri e delle riflessioni. Il modo in cui lo facciamo è in costante evoluzione. A Toronto, dove debutta il 3 di agosto, lo spettacolo è diviso in due episodi. Il primo è avviato attraverso un conference call number: chiediamo agli spettatori di stare distesi a letto e li mettiamo in contatto con altri quattro sconosciuti che si incontreranno poi, nel secondo episodio, il giorno successivo. È un percorso di engagement lungo un giorno in cui, sfruttando i mezzi digitali, cerchiamo di mettere in parallelo la vita dei partecipanti con la nostra.

The invisible city, foto Luca Del Pia

In termini di distribuzione, i lavori site-specific per pochi spettatori hanno problemi di circuitazione perché poco sostenibili. Come vivete questa difficoltà, anche nel confronto tra l’Italia e l’estero?
È una difficoltà oggettiva con cui ci confrontiamo spesso, ma siamo costretti ad accettarla per non snaturare il nostro lavoro, che si basa proprio sulla relazione. Con un numero troppo grande è difficile instaurare una dinamica di interazione.
La circuitazione è comunque solo una parte del nostro lavoro: siamo ormai molto radicati a Toronto dove la scena indipendente è molto più sostenuta che in Italia, anche in termini economici. Qua si può realmente essere imprenditori di se stessi, instaurando un rapporto con gli spettatori diretto. Si ha davvero la possibilità di costruire e concretizzare progetti importanti, grazie a open call per accedere a finanziamenti pubblici competitive e realmente aperte. Stiamo poi sfruttando delle residenze artistiche a Bombay e Nuova Delhi, dove siamo stati lo scorso anno. Questo ci ha permesso di spostarci anche con i collaboratori di Toronto, mentre di solito mi muovo da solo e trovo poi i performer localmente, portando avanti un lavoro sulla persona che cambia continuamente.

Il titolo, nell’esplicito riferimento a Calvino, parla di città. Ma lo spettacolo non attraversa la città bensì lo spazio semi-privato di un palazzo.
La città è esplorata soprattutto nella fase di pre-engagement, invitando lo spettatore a scoprire posti sconosciuti. Nell’evoluzione del progetto in episodi, la prima parte svilupperà molto il discorso sulla città e si articolerà nella ricerca di luoghi nascosti. Ma al di là di questo attraversamento fisico, le città invisibili siamo noi: ci troviamo a raccontare noi stessi e il mondo che ci abita, guidati dalla presenza invisibile dell’artista. Ritroviamo la città nella moltitudine, nella condivisione di uno spazio, nella dimensione dell’incontro, e arriviamo a costruirne una insieme, nell’ultima stanza.

The invisible city, foto Luca Del Pia

La drammaturgia crea un viaggio introspettivo a partire dai due temi principali del desiderio e del ricordo. Come si è sviluppata questa scrittura in divenire e come si appoggia alle declinazioni individuali dei performer e degli spettatori?
La memoria e il desiderio sono due dei temi delle Città invisibili di Italo Calvino: ho scelto queste categorie perché sono le cose più intime che abbiamo e che spesso abbiamo difficoltà a esprimere. Il richiamo alla memoria che viene condivisa consente di creare questo viaggio introspettivo. Con gli attori facciamo tutto “on our feet”, in piedi mentre lavoriamo. È una vera e propria scrittura scenica: chiedo ai performer di portare il loro vissuto, le loro memorie, i loro desideri e costruiamo da là. Il discorso personale è fondamentale: se chiedi alle persone di mostrarsi nella loro fragilità, lo stesso deve fare l’artista che incontrano. Questo è un punto fondamentale della nostra ricerca: è quasi una “poetica dello straniero”, che consente di conoscersi attraverso l’altro, entrando in zone ignote sia fisicamente sia mentalmente.

Francesca Serrazanetti


The Invisible City
ideazione, drammaturgia e regia Daniele Bartolini / DLT
assistente alla regia Gilda Foni
aiuto alla logistica Aurora Betti
suono Matteo Ciardi
produzione CapoTrave / Kilowatt