Incontriamo Alex Rigola in un momento di pausa. I laboratori 2010 sono appena partiti, affidato il primo a Romeo Castellucci, ma l’attività è frenetica. Lui non si scoraggia: carattere allegro, vivace, ha portato a Venezia un’ondata di energie. Naturale, allora, partire da una riflessione sul progetto generale della futura Biennale Teatro: cosa sta immaginando?

Sto pensando ad uno spazio di condivisione, a un luogo dove scambiarsi informazioni: questa è la prospettiva per me più importante. Per programmare un festival o il cartellone di un teatro, la prima cosa da fare è guardarsi intorno. Guardare lontano e guardarsi accanto. Allora, pensando al Festival della Biennale Teatro occorre chiedersi cosa accade nei festival europei o in quelli italiani. Viaggio spesso, ho portato i miei spettacoli nelle maggiori manifestazioni teatrali del mondo: e qui vorrei fare qualcosa di speciale, diverso da quanto ho potuto già sperimentare. Se guardo a cosa accade in Italia, vedo ad esempio il grande festival di Napoli, molto ricco, tanto da poter mettere sotto contratto la maggior parte delle compagnie del mondo; e quello di Santarcangelo, estremamente di tendenza, specializzato sui nuovi linguaggi. A Venezia dobbiamo avere la nostra particolarità, una identità. In che modo? In tutti i festival dove sono stato, ho notato che la cosa più importante è il momento di incontro. Normalmente, però, solo i programmatori hanno tempo per incontrarsi, parlare, scambiare esperienze: non gli artisti, che arrivano, fanno spettacolo e ripartono. I registi non hanno mai tempo per parlare tra loro, per informarsi sui reciproci lavori. Allora penso che ci sia bisogno di uno spazio e di un tempo per questo: ed è quel che vorrei fare alla Biennale Teatro. Se mi guardo intorno, infatti, non scorgo nulla di simile a quanto stiamo per organizzare: abbiamo chiamato i più importanti registi-autori a Venezia, proprio perché quel che mi preme è riflettere sulle modalità del teatro. Confrontarci sull’inesprimibile in teatro: ogni creazione scaturisce da uno spazio ambiguo, nascosto, inesprimibile della mente, e usa strade diverse per concretizzarsi. Allora mi chiedo: è possibile creare un luogo dove riflettere, scambiarsi esperienze, confrontarsi proprio sulla creazione? È possibile aprire le porte di questa casa normalmente chiusa, serrata, sconosciuta? I registi di solito lavorano con gli attori, e con questi avvengono scambi creativi, ma mai, o raramente, si confrontano con i propri colleghi registi. Vogliamo dunque creare un luogo dove le menti aperte del teatro possano scorpire nuovi modi, nuove strade, nuove direzioni per il proprio lavoro. Vogliamo confrontarci con persone che vogliono saperne di più, con chi vuole percorrere strade diverse per la propria creazione…

Come ha scelto questi sette maestri e perché?

Forse per lo stesso motivo per cui sono stato scelto come direttore della sezione teatro della Biennale. Quando sono arrivato a Barellona, alla direzione del Teatro Lliure, avevo molto chiaro cosa dovevo fare: aprire quel teatro alla migliore produzione internazionale. Bisogna continuare nella formazione, continuare a studiare, vedere cosa succede nel mondo. Penso sia sempre necessario un confronto sistematico con i maestri del teatro europeo e internazionale. Come per la letteratura, il cinema, la musica, si tratta, anche in teatro, di fornire gli strumenti per aprire le menti, proprie e altrui: le menti degli artisti locali come del pubblico. E questi strumenti si acquisiscono solo nel confronto con quanto accade altrove, in altri Paesi. Così, puoi apprendere, capire, ascoltare: per migliorarci dobbiamo condividere le nostre informazioni, confrontarci, guardare a quanto accade ovunque, nella scultura, nella musica, nelle arti in genere… È un lato positivo della globalizzazione: ed è molto importante. Il teatro internazionale può scuotere la realtà locale. Gli artisti locali, ad esempio, cominciano a confrontarsi con un livello diverso, forse più alto, rispetto a quanto sono abituati a vedere nel proprio paese: pensano di potere e dovere far di più, anche per rispondere agli accresciuti desideri e gusti del pubblico, che nel frattempo si è abituato a vedere spettacoli di respiro internazionale. Questo è accaduto a Barcellona in questi anni di direzione del Lliure.

Così, per rispondere alla domanda, posso dire che – dopo aver programmato per otto stagioni il Lliure con la migliore produzione mondiale, viaggiando ovunque, confrontandomi con i migliori registi del teatro contemporaneo – è stato facile incontrare e discutere con questi maestri sul progetto che volevo fare.

Apriamo una parentesi: questo discorso non è solo artistico ed estetico, ma anche – nel momento in cui tocca il tema della trasformazione della realtà locale, degli artisti e del pubbico nel confronto con il resto del mondo – di forte impatto politico…

Non so, forse sì. Il teatro è sempre politico. I primi drammaturghi si interrogavano sulle possibilità della democrazia nell’Atene del V secolo: anche da riflessioni politiche scaturisce l’urgenza di scrivere per la scena. Ci sono spettacoli che sono prevalentemente estetici, e mi interessano comunque, mentre in altri è maggiore l’attenzione ai contenuti, al messaggio: ma certo è che ogni volta che qualcosa esplode nella mente di uno spettatore siamo di fronte ad un fatto politico. Non è solo questione di contenuti o finalità: anche quando ti trovi di fronte ad un’opera astratta, concettuale, come può essere un quadro come i “Blu” di Mirò, qualcosa ti tocca, ti scuote, entra nel tuo profondo, e ti cambia. Per un motivo che forse non sai spiegare, ma si attiva qualcosa in te, che tocca la tua storia, il tuo background e ti modifica come persona, come uomo, come cittadino…

Torniamo alla scelta dei Maestri: Castellucci, Garcia, Lauwers, Bartis, Ostermeier, Bieito… Sicuramente vi è una grande empatia, una sinergia di intenti. Ma è anche una scelta generazionale?

Ci sono differenze di età minime, è vero. Sono tutti in un momento in cui possono connettersi meglio con giovani attori venticinquenni: a quaranta-cinquanta anni si è ancora vicini alla gioventù, più di quanto possa esserlo un maestri settantenne. Ma non solo. Credo che passati i quaranta anni, cominci a definire meglio te stesso e il tuo lavoro. Per i primi vent’anni sperimenti, provi, tasti il terreno. Accade lo stesso per i pittori. Insomma, ai quaranta si comincia ad essere artisti adulti, maturi: quando inizi a far teatro, a diciotto o venti anni, puoi anche essere un genio, ma procedi per tentativi. Spari i tuoi colpi, ma non sai se colpisci il bersaglio. Quando hai quaranta anni, sai a cosa stai sparando. Quindi i quarantenni possono iniziare a parlare alle giovani generazioni con maggiore consapevolezza. Certo, stiamo facendo generalizzazioni, non possiamo stabilire una regola in questo senso, però penso che, diventato adulto, diminuisci le possibilità di errore. Allora, i Maestri che ho chiamato a Venezia sono appena entrati nella loro adultità: è un buon momento per incontrarli, per lavorare con loro, per ascoltarli. Possono ancora parlare con i giovani, essendo appena usciti dalla loro “adolescenza teatrale”…

Come si trova alla Biennale Teatro?

Credo che il teatro debba essere sempre in movimento, cambiare ogni istante, perché il pubblico cambia ogni istante. Noi dobbiamo parlare al pubblico di oggi, non a quello di ieri né a quello di domani. E penso che la Biennale sia una struttura in movimento, capace di agire sul presente… Ho lasciato il Teatro Lliure non perché fossi stanco di quell’incarico, ma perché credo fermamente che dopo otto anni, chiunque abbia un incarico in un teatro pubblico, o in qualsiasi altra istituzione culturale pubblica, debba lasciare il posto! Nessuno aveva chiesto le mie dimissioni, ma non avrebbe fatto bene al Lliure, al pubblico e a me se fossi rimasto. Abbiamo avuto un grande consenso di pubblico e critica in questi anni, ma ho capito che era ora di cambiare. Quando cominci a pensare che solo tu puoi fare quel lavoro in quel posto, che sei indispensabile, cominci a sbagliare: e allora è meglio lasciare. E penso che questa sia una regola valida per molte se non tutte le strutture artistiche. Allora, anche qui proviamo una strada nuova, un movimento: certo non sarà la strada definitiva, o la migliore. Guardiamo al futuro, certo, e pensiamo al passato, ma vogliamo confrontarci con l’oggi, con il presente…

Parliamo più diffusamente del progetto…

La parte principale della Biennale Teatro sarà nell’ottobre 2011. Quello che viviamo ora è un “prologo”, importantissimo, a quanto vogliamo fare. Quel che vogliamo è di far arrivare a Venezia, in questa città bellissima, il più alto numero possibile di professionisti del teatro: tutti assieme per confrontarci, per quello scambio di informazioni cui ho fatto cenno prima. Ci saranno i sette maestri che lavoreranno contemporaneamente e, dopo i laboratori con gli attori, presenteranno i loro spettacoli. Avremo la possibilità di commentare e analizzare gli spettacoli visti, in un confronto con giovani registi, in dibattiti che vorrei aperti, liberi, incentrati proprio sugli “strumenti di lavoro”. Poi penso a workshop e conferenze con scenografi, setdesigner, musicisti di scena, costumisti, critici, grandi organizzatori che operano in festival di importanza internazionale…

Attività quotidiane di incontri e lezioni, che possano rimandare alle “TED conferences”: il tutto in questi luoghi di grande fascinazione. E penso ad aprire il bar della Biennale a questi incontri! Una chiacchierata al bar può valere anche più di dieci conferenze: immaginate un giovane regista che si trova a bere una birra fianco a fianco con Thomas Ostermeier…

E dunque ai sette maestri – che tanto ricordano i “sette samurai”, o i “magnifici sette” – il compito di connotare la Biennale Teatro dal punto di vista spettacolare…

Non è un festival dove vedere spettacoli. Non è quel che mi interessa, l’ho detto. Ci sono altri festival che fanno ottime e ampie programmazioni. Preferisco invece riflettere su poche cose, selezionate, e poi dare vita ad un grande fermento di iniziative tutte attorno. Anche per quel che mi riguarda: non so se farò mie regie, credo di no. Mi piace più pensare ai laboratori, al campus teatrale. Non so, forse all’ultimo momento potrei presentare qualcosa, ma quel che mi preme ora è creare questa nuova Biennale. Mi aspetto, oltretutto, una risposta speciale da questa città: Venezia è un luogo dove chiunque può arrivare. Non penso dunque ad un festival “locale”, ma a fare di Venezia ancora una volta quel che è sempre stata: un luogo di incontro e di riferimento per tutto il mondo. Questo accade nella Biennale architettura, nelle arti, nel cinema: la Biennale ha sempre pensato ad aprire le singole sezioni al mondo.

In questo contesto c’è spazio per nuovi artisti? Vede qualcosa di interessante tra le giovani generazioni?

È organico che ci sia qualcosa di nuovo. Naturalmente. Ma non mi interessa molto analizzare dettagliatamente cosa accade. Ci sono molti artisti nel mondo, ma non li so definire: non sono un teorico – anche se mi piace confrontarmi con la teoria. Ci sono cose che mi piacciono, cose che mi commuovono: forse non so il perché uno spettacolo mi tocca e un altro mi interessa meno. Ma non mi preoccupo di definire regole o motivi, così non mi preoccupo di definire le nuove generazioni.

Ha spesso citato pittori. Chi sono i suoi maestri?

L’arte visiva, la pittura, la musica che ascolto, i film che vedo a cinema, le mostre, gli happenings, gli spettacoli che vedo… A volte, penso di essere “ateo”. Ma ho deciso di credere: credo in Thomas Ostermeier, in Jan Fabre, in Frank Castorf, in Romeo Castellucci, in Jan Lauwers, in Rodrigo Garcia… Credo nei Velvet Underground!

Intervista a cura di Andrea Porcheddu, di www.delteatro.it

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