Il momento programmato dell’intervista, dopo una settimana passata fianco a fianco nel lavoro quotidiano, risulta quasi una forzatura.
Calixto Bieito non ama parlare di sé e stare al centro dell’attenzione. Basti dire che in occasione dell’incontro con il pubblico, organizzato da Biennale Teatro per venerdì 11 Febbraio, il regista ha preferito far ascoltare in religioso silenzio un requiem del compositore ungherese György Ligeti, piuttosto che raccontare di sé. Le molte cose che pur ha da dire le lascia cadere come ovvietà senza importanza, e sembra sentirsi a proprio agio solo quando ha l’impressione di trovarsi in una conversazione lontana da ogni parvenza di istituzionalità.

Da Stemmer, lo spettacolo visuale tratto da un oratorio barocco, fino all’Edgar Allan Poe di questi giorni. Calixto Bieito comincia a fuggire dai classici teatrali tout court. Per rifugiarsi dove?
Ho cominciato a fare spettacoli classici, di repertorio, quando avevo venticinque anni. Ora per me è venuto il momento di nutrirmi di nuovi elementi. Sto cercando altrove i miei percorsi. Mi affascina l’arte contemporanea e in particolare le arti visuali. I miei ultimi spettacoli sono installazioni visive, sto cercando di combinare elementi differenti: testo, musica, danza. Da quando sono qui a Venezia passo tutta la mattina nei musei: ossigeno per la mia ispirazione.
Con queste premesse, quali sono le prospettive?
Dopo quasi dieci anni, ho lasciato la direzione del Teatre Romea. Era un’esperienza arrivata alla sua naturale conclusione. Ad essere sinceri, poi, dirigere un teatro non mi si addice molto. Non sono molto socievole e con le pubbliche relazioni sono un disastro; ma gestire un’istituzione così importante richiede inevitabilmente anche quelle capacità. Quando ero giovane, mi proposero di prendere in mano un importantissimo stabile di Madrid. Un caro amico di consigliò di non farlo, dicendo che me ne sarei pentito. Ma io ero molto tentato. Poi la cosa saltò e, guardandomi indietro, so che fu un bene. Quando presi la direzione del Romea, chiesi come condizione di non dovermi occupare di questioni amministrative. Gli anni passati lì sono stati belli e importanti, ma non mi dispiace cominciare a muovermi con libertà.
Per il resto, vedremo: sto lavorando alla creazione di una compagnia internazionale europea, con la quale lavorerò a partire da Ottobre.
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Com’è la situazione del teatro spagnolo?
La mia impressione è che le cose interessanti succedano fuori dai grandi e importanti teatri della città. Ci sono tanti talenti, vedo tanti colleghi fare cose molto buone: si tratta di piccoli fuochi, di percorsi individuali. La tendenza dei luoghi istituzionali è invece quella di intendere la cultura come intrattenimento, di pensare anche al teatro come qualcosa da commercializzare, da poter etichettare e vendere di conseguenza. E questo non può che nuocere alla creatività.
I giornali hanno scritto che Bieito, nelle sue ultime creazioni, “se pone serio” (così “El cultural” a proposito del Fidelio di Beethoven). È vero? Qualcosa sta cambiando?
No, non direi. Tutto dipende dall’opera che prendo in considerazione. Se lavoro su Don Giovanni o su Macbeth è un conto: è il testo stesso a chiedere di osare. Se mi sto occupando di un oratorio barocco o del Fidelio di Beethoven è un altro! Capita che io sia impegnato in quattro o cinque produzioni l’anno: è normale che io abbia molte facce. Sto diventando vecchio, questo si. Ma non credo che un eccesso di serietà dipenda da questo.
Non dobbiamo aspettarci allora la rinuncia alla provocazione?
Quando creo non penso a provocare. Mi piace sperimentare, mettere in relazione i testi su cui lavoro con il tempo in cui vivo, confrontarmi con un pubblico più eterogeneo possibile, per nazionalità e gusto. Il resto viene di conseguenza. Certo, ogni tanto mi piace giocare, come farebbe un bambino. Qualche tempo fa sono stato a cena in una casa tappezzata di quadri di enorme valore. Subito, come per istinto, mio figlio si è avvicinato a uno di questi quadri con una penna, e l’ho fermato appena in tempo mentre stava per disegnarci sopra. Ecco: a volte mi viene proprio questo genere di istinto…
Sarà forse per questo che in Italia hanno paura a chiamarla: lavora in tutta Europa, invece qui solo raramente. È un caso?
In effetti ho lavorato poco in Italia, rispetto ad altri paesi d’Europa. Eppure mi capita spesso di osservare che c’è una parte di pubblico italiano che mi segue nelle mie rappresentazioni. Ma tutti mi hanno sempre detto che se presentassi in Italia una delle mie opere mi ucciderebbero! Cosa succederebbe se portassi il Trovatore?
Perché, cosa succede nel Trovatore?
Beh, è accaduto che parte del pubblico uscisse vomitando… È un’opera forte! Ma ripensandoci anche a distanza di tempo, il risultato mi convince molto. Quando mi hanno proposto di lavorarci non ero convinto: la trama mi sembrava complicata come quella di un giallo. Poi, mi sono reso conto che Verdi mi offriva l’occasione per creare un gigantesco poema sulla morte, ispirato a Pasolini e a Bosch.
I maestri di Calixto Bieito non vengono dal teatro, sembra…
Forse è vero. Naturalmente è stato importante incontrare, nella mia formazione, personalità come Peter Brook o Giorgio Strehler. Ma l’influenza più profonda in me l’ha avuta Buñuel, con la sua capacità di toccare ogni tema con il suo umorismo nero. È qualcosa che mi appartiene profondamente. Comunque sono sempre stato guidato da una grande curiosità; mi sono formato dai gesuiti, e credo che questo abbia inciso non poco. Crescendo in posti come quelli, si diventa o religiosi o creativi.
Un percorso condotto in totale autonomia. Che effetto fa, allora, essere considerato un maestro come accade in questi giorni nel laboratorio veneziano?
Non sono assolutamente bravo ad insegnare! Questo è il secondo workshop che faccio in tutta la mia vita e ho accettato solo perché il progetto di Alex Rigola mi sembrava molto bello. Per quel che mi riguarda, sono scappato dall’accademia molto presto: ma qui ho lavorato con un buon gruppo, e ammetto che mi sono divertito molto.
Il lavoro conclusivo, previsto per l’ottobre 2011, sarà sui sette peccati capitali: c’è già un’idea dominante?
Per ora sto lavorando su Edgar Allan Poe senza farmi troppe domande. Le sue atmosfere mi stanno dando molte suggestioni. Poi vedremo. Certo che propormi un tema come questo è come invitarmi a nozze!
Maddalena Giovannelli
Per saperne di più sui laboratori attivati da Biennale Teatro, leggi gli altri articoli del progetto OctoberTest