Il quadro che apre la giornata di mercoledì evoca l’happy ending di un film americano più che un workshop con Calixto Bieito: i dieci attori, raccolti intorno al pianoforte, imparano a cantare A vanishing act di Lou Reed tra risate, suggerimenti e sguardi di complicità.
Jung, seduta al piano, incoraggiante, scandisce il ritmo con una mano. Il lungo lavoro fianco a fianco e le cene insieme hanno ormai creato una naturale consuetudine e una percepibile intimità.

Bieito se ne accorge e alza il tiro: molte delle scene che proporrà d’ora in poi metteranno a dura prova gli attori e prenderanno una tonalità noir ben più appropriata all’enfant terrible della liricaeuropea.

La poesia di Poe “To my mother”, affidata a Carla, deve evocare lo sfogo inconsolabile di una bambina che ha appena perso la madre: allora Bieito chiede alla sua “catalan lady” di prendere una bottiglia d’acqua, di bere e poi sputare, di ripetere il testo lasciando che il corpo venga squassato dai conati. Come se non bastasse, la bagna da capo a piedi. Il testo di Carla – che si aggira per il palco ormai fradicia, con i capelli appiccicati al volto e il corpo tremante – diviene d’improvviso uno straziante urlo di dolore.

A Laura, attrice che normalmente lavora a Zurigo, Bieito propone invece di trasformare il monologo in un epitaffio dedicato all’amato appena ucciso: l’abbraccio sul corpo del morto si trasfigura poco a poco in una danza di macabra e disperata sensualità.

Gli attori rispondono alle provocazioni con incredibile disponibilità e accettano di scendere negli inferi dell’animo umano: il maestro si è conquistato la loro fiducia.

Presto il regista si rivolge anche allo spazio con la medesima necessità di decostruzione che lo guida nell’approccio ai testi. L’elegante maestosità della sala delle Colonne a Ca Giustinian, sede della Biennale di Venezia, richiede qualche alterazione: gli attori vengono invitati a travolgere le ordinate file di sedie bianche in una incontenibile corsa collettiva. Ogni angolo dello spazio viene riempito da un momento scenico. Qualcuno grida il suo testo ad una colonna, qualcuno preme il corpo contro il muro lamentandosi, qualcuno canta sdraiato sotto il pianoforte: la sala trabocca di vita.

Il metodo di lavoro di Bieito sembra, come una vocazione, rompere ogni forma di equilibrio o di stasi che si crei sul palco e nel processo creativo. Così, quando una sequenza di scene ha ormai preso vita e sembra stabilizzarsi, con gli attori che si sforzano a memorizzarla, Bieito ricomincia tutto da capo: «cambiamo tutto, non voglio fissare nulla. Credo proprio che sia meglio così».

Fino all’ultimo giorno, la sequenza scenica si modifica in modo non solo formale. Il testo di Valerio, che per quattro giorni sembrava portare in una direzione astratta e rarefatta, diviene improvvisamente il prologo di un omicidio: alle sue spalle c’è Mediha, che trasformerà il monologo nel suo ultimo atto. «Ora uccidila! E tu lotta, cerca di sfuggirgli! Hai 15 secondi per morire». Quindici secondi possono essere un’eternità, e i due attori faticano a riempirla di violenza, mentre un inesorabile countdown scandisce il tempo con impietosa puntualità. Quando tutto è finito, Valerio raccoglie il cadavere e danza un ultimo straziante valzer con il corpo inerme, mentre la voce di Alessio fa risuonare “A dream within a dream” di Poe (“e da te ora separandomi / lascia che io ti dica / che non sbagli se pensi / che tutti furono un sogno i miei giorni”).

I risultati del lavoro sono sorprendenti e, fino all’ultimo istante, aleggia la sensazione che tutto potrebbe accadere. Ma l’incanto è destinato a interrompersi. Bieito raccoglie intorno a sé i suoi attori e li ringrazia dei giorni passati insieme: «Siate coraggiosi. Bisogna lottare per ottenere quello che si vuole, e voi di coraggio ne avete tutti. Perciò: buona fortuna».

I dieci lo guardano con gli occhi lucidi e gli animi pieni di gratitudine.

Difficile dire cosa si porteranno a casa di questa esperienza e se riusciranno a riprodurre, nel loro lavoro quotidiano, il cambiamento che l’azione plasmante del maestro sapeva ottenere in loro.

Certamente è stata loro offerta un’opportunità: passare una settimana di ordinaria follia con Calixto Bieito, come fossero membri della sua compagnia impegnati in una produzione. La possibilità di assaporare, anche se per poco, com’è lavorare con un regista dall’eccezionale talento nel dirigere gli attori, di imprevedibile genio, di straordinaria umanità. Ed è un assaggio che non può che lasciare una gran fame.

Maddalena Giovannelli