Venezia, in un martedì mattina diverso da altri, sembra lo scenario ideale per Edgar Allan Poe. Una nebbia bianca e umida sale dall’acqua fino a ricoprire tutti i ponti, e il palazzo della Biennale sembra completamente avvolto da una spessa coltre. Tiziana, attrice napoletana che vive a Petra, propone subito: «perché non andiamo a lavorare in qualche piazzetta?». L’idea, però, cade nel vuoto. Gli attori hanno fatto del loro meglio per imparare a memoria i nuovi testi: si aggirano nervosamente nello spazio, ripassano e armeggiano con le fotocopie fornite loro in tutta fretta da Carolina e Marcello, assistenti alla regia.

Bieito comincia ad ascoltare qualche brano, suggerisce possibili direzioni interpretative, propone le ormai consuete accelerazioni di ritmo («more, more, more!» oppure «open, open open!»).
Poi d’improvviso, si ferma e guarda negli occhi tutto il gruppo: «non ho niente da insegnarvi, siete tutti professionisti. Lavoriamo, mettiamoci all’opera, facciamo cose. È tutto ciò che posso offrirvi». E così sarà d’ora in poi: Bieito si comporterà come dovesse allestire uno spettacolo. Nasce allora, come per incanto, una microdrammaturgia composta da racconti e ballate di Poe, da valzer ritmati eseguiti al pianoforte e canzoni di Lou Reed.
Ad Aref – attore del Bangladesh – il regista chiede di raccontare una storia per bambini in bengali. Le parole sono inaccessibili, ma il ritmo del racconto, la traiettoria della parola nello spazio, le atmosfere arcane evocate dai suoni di una lingua misteriosa, rendono il momento straordinariamente toccante.
«Non dovrai mai dirmi cosa stai raccontando, non voglio saperlo. È meraviglioso così», prega Bieito. Lo stesso accade con Mediha, che vive a Istambul e narra in turco. Anche in questo caso, Bieito lavora su di lei come con uno strumento musicale: dirige le sue parole fino a renderle un fiume in piena che investe lo spettatore, poi le trasforma d’improvviso in sommesse come gocce d’acqua che stillano piano.
Il collage ottenuto – destinato a decostruirsi per poi ricostituirsi ancora – è di una sorprendente coerenza. A brevi “solo”, si alternano dialoghi e movimenti collettivi attraverso lo spazio.
Così il brano studiato da Caroline e Alessio (entrambi lavorano a Venezia, ma non si sono mai conosciuti prima) diviene un dialogo tra una coppia arrivata alla totale impossibilità di comunicare. «Voglio che mi mostriate l’inferno quotidiano di una coppia: uno dei peggiori incubi nei quali si può piombare». Seguendo i consigli del loro geniale Mefistofele («posso suggerirvi moltissimi modi per essere violenti in scena», propone sornione il regista), i due si prendono per i capelli, si buttano l’un l’altro a terra, usano la voce con una violenza persino maggiore di quanto possano i gesti. Per poi finire a fare pace come i cani, uggiolando e annusandosi.
È poi la volta di Christiane, che attacca con il celebre “The Raven” (ispirazione del “Raven” di Lou Reed, album tutto dedicato alla vita dello scrittore americano): all’attrice tedesca Bieito chiede di parlare come sotto l’effetto di una droga che esasperi un’ossessione, e lei sa cogliere al volo l’indicazione.
Ma con Calixto Bieito non c’è mai da stare tranquilli: l’atmosfera rarefatta ottenuta lentamente e con tanti sforzi viene frantumata dall’attacco di una canzone di Eminem. Parte così una surreale ed ironica coreografia, che prosegue sul battere ritmico del pianoforte. Jung, pianista della Fenice che accompagna il lavoro del laboratorio, ormai è pronta a tutto: anche a seguire le note del rapper più famoso d’America.

Bieito ride, soddisfatto. Ciò che vede gli piace. Sa come ottenerlo rapidamente, non ha bisogno di urlare o pretendere con prepotenza: «odio i registi che urlano con gli attori: è evidente che non sanno dirigerli – sentenzia – sul palco si è vulnerabili come su un letto. Bisogna avere cautela». Allo stesso modo, non ama spiegare il perché di quello che fa, dilungarsi in sterili teorizzazioni o analizzare troppo ciò che avviene sulla scena («what a good trip!»: è l’unico commento che conclude il lavoro). Ammette di non sopportare gli attori che fanno troppe domande e “diventa pazzo” quando pretendono di discutere con lui la psicologia di un personaggio: «just do it!», si spazientisce. L’abusato slogan della Nike diviene così una coerente, convincente ed efficace dichiarazione di poetica…