In un paesaggio performativo esploso fatto di albe e tramonti, di passeggiate nei boschi o sulla spiaggia e di rituali onirici (dal Night Tripper al Diorama for Santarcangelo di Ingri Fiksdal), la 48° edizione del festival di Santarcangelo ha dato spazio anche a spettacoli dominati dalla parola. A essere messo in discussione in molti di essi sembra essere il rapporto tra l’individuo è una società dai caratteri sempre più incerti, e per questo spesso sconfinanti nel giudizio è nel tabù. Caratteri messi d’altra parte in luce dal reale contesto stesso del festival, che viene periodicamente messo sotto accusa da un certo conservatorismo santarcangiolese, che accusa le nudità fisiche e teoriche portate in piazza dalla rassegna.
Ci si trova così a dare voce a un dialogo sui mutati confini di amore e desiderio, che mette a confronto persone di età e culture differenti, nella performance di Anna Rispoli, Lotte Lindern& Till Steinbrenner Your word in my mouth. Brussels take. Basato su conversazioni realmente avvenute nella capitale belga, il copione (letto da nove spettatori, mentre altri formano il pubblico) presenta con assoluta veridicità protagonisti e racconti apparentemente improbabili: tra teorizzazioni del poliamore, esperienze di cambio di genere e di facilitazione di rapporti sessuali tra coppie disabili, si sperimenta una forma interpretativa che elimina gli attori e crea empatia nel pubblico.
La percezione del proprio “stare” nel rapporto con il giudizio della società é al centro di Be careful dell’indiana Mallika Taneja. La performer compare nuda davanti alla platea per poi iniziare a coprirsi progressivamente, in una improbabile stratificazione di scialli e vestiti: coprirsi diventa qui sinonimo di protezione da un giudizio che imputa alla donna le responsabilità della provocazione. In mezz’ora di un flusso di parole autoironico e inarrestabile, Mallika si adegua agli assurdi pregiudizi della società, denunciandone l’ipocrisia.
Più complesso e concettuale è il dibattito filosofico scatenato da un’anatra in Piece for Person and Ghetto Bluster di Nicola Gunn, artista australiana al suo debutto in Italia. Il dilemma che dà corpo al testo è infatti quello di una donna straniera che corre in una città belga e vede un uomo che tira sassi contro un’anatra, mentre due bambini lo guardano. Cosa fare? Non può trattarsi di un caso, e mentre Nicola si chiede come reagire e cerca di immaginare cosa avrebbero fatto altri (niente meno che Marina Abramovic, ad esempio) prende corpo un articolato monologo che tocca questioni etiche ed esistenziali. Il “ghetto blaster”, lo stereo portatile con altoparlanti integrati che ha accompagnato la nascita dell’hip hop, accompagna i movimenti della performer, che danno un ritmo coreografato allo spettacolo. Chiamando in causa riferimenti cinematografici e filosofici, da Still Life a Peter Singer, al centro del discorso arrivano riflessioni sull’essere stranieri (lo è lei, e lo è l’uomo che attacca l’anatra) e la domanda su quale sia il limite tra bene e male, tra pace e conflitto, tra razionalità e desiderio, tra giusto e sbagliato, tra arte e vita. Finché hai la matita in mano puoi scegliere e tracciare tu la linea, ma se non la tracci? E gli artisti, osserva, non lo fanno mai. La riflessione si sposta così da una questione etica e sociale a un ragionamento sullo statuto stesso del teatro, e su quella tendenza a cercare sempre del “materiale” da trasformare in arte. Si scoprirà poi, infatti, che tutta la storia ruotava attorno a una performance. L’anatra risulta così per essere la parte ignara e allo stesso tempo più consapevole. “Io ho dei piani”, dirà nell’assurdo finale, quello più (coerentemente) performativo in cui è lei a diventare assoluta protagonista.
Francesca Serrazanetti