Il mare, a Porto Selvaggio, è una promessa che si realizza alla fine di una lunga strada. Una fila disordinata di spettatori si addensa e si comprime man mano che si avvicina alla meta: la conduce, attraverso i boschi, un beffardo Puck contemporaneo armato di megafono. Ma niente spiriti della notte, qui. Alla vostra destra potete ammirare piuttosto gli esemplari più comuni dei nostri sottoboschi urbani, alla vostra sinistra ecco invece i prodotti delle nostre lungimiranti politiche di accoglienza e di integrazione dei migranti: c’è la meretrix extera, il raptor villarum, l’incendiarius fanaticus orientalis.
Alle definizioni – affidate al latino impersonale dei bestiari – si accompagnano bislacche ipostasi umane, che incarnano allo stesso tempo la semplificazione dello stereotipo e la crudezza del reale.
Dei nomi propri, invece, non c’è traccia. I nomi si dimenticano durante i viaggi in mare, e i doloranti bagagli della memoria si svuotano pian piano tra un centro di accoglienza, una visita medica e una pratica per la richiesta di asilo. Si resta così, sospesi, in bilico tra un passato ormai inaccessibile e un futuro che non si decide a cominciare. Ecco perché a raccontarci delle infinite odissee contemporanee sono figure ferine – sospese anch’esse, ma ai rami degli alberi – animali in trappola che tentano invano di slegarsi da vincoli troppo stretti.
E prima? Il nastro della storia cerca di riavvolgersi per tornare all’origine, ma si inceppa sempre nello stesso punto: il mare. Quel mare che si scurisce davanti agli occhi dello spettatore diventando al tramonto – come amava dire Omero – color-del-vino. Ma la formula poetica dell’aedo si snatura e si trasforma: il Mediterraneo feroce che inghiotte corpi e memoria perde la sua dolcezza antica e diviene il mare-che-non-si-può-dire. Ci proveranno i corpi, allora, a raccontare l’irraccontabile. Corpi galleggianti nell’acqua, corpi disperatamente ancorati agli scogli, corpi che si dibattono sul lido ghiaioso. Immagini che abbiamo visto nei notiziari dieci, cento, mille volte. Ma quella moltitudine viva davanti ai nostri occhi, quei volti dai colori e dai tratti stranieri, quegli occhi che puntano dritti nei nostri, pretendono di arrivare dritti alla sorgente dell’empatia umana, sgretolando quel che resta delle nostre esili difese.
Maddalena Giovannelli
Approdi
regista di percorso: Ippolito Chiarello
progetto musicale: Claudio Prima
coreografie: Maristella Martella
Ph. di Luigi Burroni