Una giovane donna è vestita con un abito rosso brillante e una maschera rugosa dai capelli argento. Attraversa il palcoscenico a passo stentato e incespica in una postura gibbosa, le braccia libere ma pesanti e le gambe rigide. All’angolo, prima viene sollevata in aria da un danzatore e poi dev’essere sorretta per non accasciarsi terra. La gestualità fatale con cui Ramona Caia esaurisce a terra il proprio moto è il perno attorno a cui ruota la rilettura del poema lucreziano messa in scena da Virgilio Sieni con il suo La natura delle cose – prima parte di una trilogia ispirata al De rerum natura e ideata con la collaborazione drammaturgica e filologica di Giorgio Agamben. Le movenze della danzatrice rappresentano infatti l’ideale seniano di una di «poesia incarnata», in cui l’intensità aurorale del gesto è il mezzo che squarcia il vuoto sulla natura delle cose passate e presenti. La plasticizzazione coreografica di Sieni riesce a figurare la dialettica filosofica materialista, che la voce abrasiva di Nada Malanima ricorda più volte essere in bilico fra «una divina letizia e insieme l’orrore»: fra vita e morte, voluttà e inanità, aggregazione e disgregazione.
Ed è proprio questo equilibrio sottile che vediamo quando Caia indossa la maschera di un’adolescente dai capelli biondi: la levità di un polso o del corpo che non tocca mai terra, mima la postura aerea e levigata delle Veneri cinquecentesche sorgenti dall’acque; oppure quando indossa la maschera di un bambolotto glabro e si lascia trascinare in movimenti sincopati come se facesse da puntaspilli ai fulmini. Ed eccola infine, nelle sembianze di una vecchia, danzare secondo la gestualità liturgica e ripetitiva del rituale: ricalca le linee discendenti come il Cristo nelle deposizioni. Allora Caia non è solo la forza generatrice di Venere che dà vita alle cose, ma è anche simulacrum – illusione, fantasma – delle cose stesse. Un’aura arcana e immaginifica s’irradia dalla sua potenza figurale capace di involvere gli atomi: Sieni la rappresenta con quattro danzatori uomini, quattro figurae per dirla con Lucrezio. Questa risonanza gestuale con cui i corpi si aggregano e si disgregano nel vuoto è la forza che dà origine a figure metamorfiche mostruose e meravigliose, come la donna cervo che compare sul finale. Effigi che durano un attimo, destinate a dissolversi nel tempo, secondo la natura delle cose.
Lucrezia Tavella
ph: Paolo Porto
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