ideazione e coreografia di Michela Lucenti in collaborazione con Balletto Civile
visto al teatro Elfo Puccini di Milano_7-10 Giugno 2012
Chi ha visto Pina di Wim Wenders ricorderà, tra le note di Le Sacre du Printemps, i lunghi vestiti sporchi della terra che copre il palcoscenico, i volti drammatici, i gruppi contrapposti di uomini e donne. Per questa o altre vie, l’opera di Stravinskij si insinua nella memoria non solo degli appassionati di balletto; e molti, accanto a Pina Bausch, sono i coreografi che hanno scelto di misurarsi con i suoni impervi e poliritmici di Le Sacre, da Béjart a Ismael Ivo.
Michela Lucenti con il suo Sacro della primavera sgombra il campo dal già visto, fin dalla prima immagine: Maurizio Camilli, con in testa due enormi orecchie da coniglio, mangia un panino e si mette al mixer. Da quella posizione preparerà incursioni sonore, pronte a inserirsi di soppiatto nella partitura musicale, a rompere la ritmica ossessiva dell’opera, a modificare le azioni dei performers. Per chi ancora non avesse capito che si tratta di uno Stravinskij iper-contemporaneo, i vestiti tolgono ogni dubbio: i 14 attori/danzatori sono muniti di felpe, jeans, cappellini, T-shirt con logo, camicie larghe che nascondono i corpi allenati e scolpiti delle danzatrici. La coreografa Michela Lucenti e il suo Balletto Civile (fondato nel 2003 come studio su un teatro totale) vanno alla ricerca di un nuovo sacro: se la vergine di Stravinskij veniva sacrificata per propiziare la primavera della sua comunità, ora non è più tempo di un unico capro espiatorio. Ogni membro di questa colorata e scalcinata collettività deve offrire se stesso: con parola, movimenti, mugugni, urli. C’è chi confessa segreti (“c’è una cosa che non ho mai detto a nessuno. Sono un negro”, dice imbarazzato un attore bianco), c’è chi grida, c’è chi apre la bocca ma non riesce a parlare, chi prega al compagno di alzarsi “perché in sala c’è Michele Abbondanza, non mi far fare figure di merda”, chi supplica il padre di non imbarazzarsi e condannare perché “sono felice, papà”. C’è chi resta in mutande, chi si mette le scarpe con i tacchi, chi si nasconde dietro un cappellino.
È una comunità connotata in senso generazionale che si dibatte per cercare di farcela: e se i soldi sono sul palco, nelle tasche, nelle bocche – ossessionante fiore di una primavera del nuovo millennio – è la paura della solitudine la patologia dominante. I perfomers vagano sul palco cercando costantemente un contatto con l’altro, l’occasione per una presa, per un appoggio, per un salto su un corpo (ottima e ben utilizzata la tecnica contact): ma è il tempo di un attimo, poi si è di nuovo a terra soli, in ricerca vorace di un altro momento di sospensione.
Le coreografie di insieme sono rare e dettate dalle interferenze musicali: quasi fosse possibile recuperare una pluralità concorde solo se imposta dall’esterno. Gli interpreti corrono caotici, si buttano sperando che qualcuno li prenda e non si fermano mai; e se all’inizio sembra di vedere un’entropia allegra e multicolore, pian piano se ne coglie tutta l’ansietà e l’inquietudine. “Se mi rilasso, collasso”, cantava BandaBardò, interpretando forse la stessa malattia generazionale rappresentata da Balletto Civile.
Maddalena Giovannelli