di Igor Esposito
diretto e interpretato da Peppino Mazzotta
visto al Teatro Franco Parenti di Milano_ 11-21 Ottobre 2012

Ifigenia, Egisto e Clitemnestra, Agamennone, Cassandra, Oreste: i personaggi dell’Orestea prendono vita, uno dopo l’altro, dalla semioscurità di un palco illuminato da qualche candela. A evocarli, come fantasmi, è la voce di Peppino Mazzotta (regista e unico interprete dell’allestimento): una voce che si espande, materica e densa, a discapito di un corpo che invece sfugge, debole e vacuo come ectoplasma. Mazzotta si muove da una parte all’altra della scena con una sedia a rotelle; e anche chi, tra i personaggi, può alzarsi e camminare, si stacca dalla sedia con difficoltà, traballa, cerca presto un’altra superficie a cui aggrapparsi. Corpi sofferenti e malati, così come gli individui che li abitano: parlano al vuoto, senza il privilegio di un interlocutore, in un silenzio che rimbomba ancora più forte se si pensa alla natura corale del teatro greco in cui sono nati. Il testo del poeta e drammaturgo napoletano Igor Esposito indaga le solitudini degli Atridi scavando tra le pieghe dell’antecedente eschileo, forzando la mano, giocando con l’eco del patrimonio post-greco.

Non stupisce apprendere che si tratta di una drammaturgia composta ad hoc per Mazzotta: le rime impervie, le provocazioni, i nodi lirici non sempre perspicui rischierebbero l’autoreferenzialità senza un interprete d’eccellenza. Esposito immagina un burattinaio capace di tenere le fila della narrazione: è il cronista notturno di Radio Argo, corifeo contemporaneo, che con la sua voce pastosa commenta le vicende della città. La partecipazione ora empatica ora sgomenta del coro greco lascia il posto a un’ambigua distanza, a uno sguardo cinico e attento che capisce ma non comprende e mai del tutto perdona; ed è a questo oscuro conduttore che spetta evocare i personaggi per farli scomparire un momento dopo. Solo Ifigenia, la figlia di Agamennone sacrificata con il placet paterno, sfugge alla morsa di questo meccanismo drammaturgico: la sua morte – premessa indispensabile per comprendere la sanguinaria vendetta di Clitemnestra, un antefatto alluso ma non raccontato da Eschilo – si fa qui angoscioso prologo. La bambina, nascosta in un enorme impermeabile rosso che lascia scoperto solo il viso, ripercorre l’ultima giornata fino al colpo che le spezza la vita, rievocando un evento già accaduto e forse già mille volte raccontato. L’apertura resta uno dei momenti più forti, crudi ed emozionanti dello spettacolo: moriranno anche tutti gli altri, certo, ma non con la stessa innocenza e non in scena, davanti agli occhi degli spettatori.

Per questo tabù – e per molti altri aspetti – Mazzotta ed Esposito sembrano fare i conti con l’eredità greca più di quanto possa apparire a un primo sguardo. Così il volto dell’interprete, sempre truccato, coperto, a volte stravolto fino al grottesco, richiama la maschera che nel teatro classico nascondeva il viso degli attori, poco lasciando di umano. Anche i personaggi – pur nella distanza di una riscrittura che rivendica a ogni istante tutta la propria autonomia – non sono affatto estranei all’originale eschileo: Egisto parla in dialetto siciliano e non risparmia volgari insinuazioni sulla bellezza della piccola Ifigenia, ma la viltà con cui delega all’amante l’omicidio del re-rivale non è invenzione di Esposito; Agamennone ragiona sul potere come uno squalo del capitalismo contemporaneo (“con la ricchezza si fa la civiltà, non l’innocenza”), ma è già nella vulgata mitica la sua decisione di sacrificare la figlia per non mettere a rischio la spedizione militare; Cassandra – con le sue filastrocche in rima vomitate con voce ferina –  è un monstrum, tanto quanto la profetessa antica veniva percepita come un essere alieno, troppo vicina al divino per essere considerata del tutto umana.

Dove Esposito decide di abbandonare Eschilo e di percorrere la propria personalissima strada è in Oreste: il conflitto poco psicologico dell’eroe tragico per eccellenza – che dalla sua ha la voce forte e l’ordine non differibile del dio – diviene qui incertezza amletica, dubbio contemporaneo. Per lui non c’è assoluzione possibile, né tribunale capace di scacciare le Erinni e trasformarle in Eumenidi. Oreste rimane solo, in un palazzo abbandonato da tutti (non a caso non c’è traccia di Elettra) alle prese con un potere che non vuole esercitare e al quale preferisce “il profumo del mare”. Con lo squarcio improvviso di una quarta parete che poco si confà al teatro antico, Mazzotta-Oreste si rivolge direttamente al pubblico – ormai coro empatico – tra citazioni di Ezra Pound (“strappate da voi la vanità”) e riflessioni per nulla rassicuranti sulla cultura.
Con questa riuscitissima Orestea contemporanea, Esposito affonda la lama nelle piaghe di una generazione chiamata a fare tabula rasa di schemi di potere nei quali non può più riconoscersi, ma incapace di creare (o anche solo di sognare) un’alternativa. Mazzotta incendia il testo con una regia calibrata e soprattutto con un’interpretazione consapevole e generosa, tra le più sorprendenti viste di recente.

Maddalena Giovannelli