Immaginiamoci di essere a Londra alla fine degli anni ottanta: la drammaturgia inglese sta vivendo, ormai dal dopoguerra, un torpore fatto di well-made play, sceneggiature educate e rigida pacatezza, tratti distintivi di una crisi così pervasiva da svuotare di significato uno dei secolari cardini dell’identità british, il teatro, riducendolo a composto intrattenimento.

Questo velo di immobilismo creativo viene lacerato nell’ultimo decennio del secolo dal grido di una nuova drammaturgia. Una drammaturgia nata per scuotere gli animi, per imporre al pubblico un contatto con l’osceno talmente diretto da violare l’altrui intimità, riducendo all’osso la propria safe zone spettatoriale. In scena solo temi tabù: sesso, violenza, stupri, cannibalismo. Nei testi, la lucida aggressività di una serie di giovanissimi autori – tutti under 30 – mossi dal bisogno viscerale di risvegliare la coscienza di una società incancrenita. La detonazione di quello che sarebbe stato poi definito in-yer-face theatre – prendendo in prestito l’espressione gergale inglese “in your face!” – venne innescata da Sarah Kane nel 1993 con il debutto di Blasted al Royal Court Upstairs, sala allora dedicata alla sperimentazione di nuovi testi e pièce-studio. Lo spettacolo stravolse l’opinione pubblica aggiudicandosi numerose recensioni negative: ci vollero anni e la morte dell’autrice prima che alcuni degli stessi giornalisti che lo avevano stroncato tornassero sulle loro posizioni e riconoscessero in Sarah Kane un’autrice di grande potenza.

Nei cinque lavori lasciati da Kane – suicida a 28 anni – non solo si legge chiaramente la volontà dell’autrice di fare del volgare e della violenza i grimaldelli estetici per trattare i temi cardine dell’esperienza umana, ma si registra anche l’assenza di qualunque vena paternalistico-didattica nei confronti del pubblico. A controprova di questa sua insofferenza verso il moralismo e le istituzioni, Kane, con un gesto del tutto rivoluzionario per il periodo, liberò i suoi testi dai diritti, impedendo ai grandi teatri di appropriarsene e lasciando a chiunque la possibilità di metterli in scena.

Tra i molti che ringraziano questo atto di generosità c’è anche Elena Arvigo che, diretta dalla regista Valentina Calvani, ha ormai interpretato più di 185 volte 4:48 Psychosis, opera ritenuta da molti l’auto-epitaffio della scrittrice inglese. Quello dell’Arvigo è un monologo a più voci dal registro schizofrenico, dove il tema della depressione viene trattato in tutta la sua drammaticità ma anche vivacizzato con quel black humor tipico del teatro d’oltremanica . Ironizzare infatti su tematiche delicate,malattia e morte comprese, non è un atto di cinismo fine a se stesso, ma una vera e propria missione: è la caparbia volontà di gettare semi di speranza nell’arido terriccio della disperazione. Qualcosa riuscirà a crescere?[E. G.]

Lo abbiamo chiesto, insieme a molte altre domande, direttamente a lei, per cercare di scavare quanto più in profondità nel testo ma soprattutto nell’esperienza dell’Arvigo, dopo dieci anni di Sarah Kane.

Usando un gioco infinito di ripetizioni, di frammenti, facendo crollare i confini tra sé e altro, Sarah Kane in 4:48 Psychosis ci immerge in una psicosi non individuale, ma che sembra affliggere tutto il genere umano. Se dovessi trovare una parola chiave per definire questa percezione di Kane e, in generale il suo lavoro, da  quale partiresti?
Non partirei da una, ma da due: morale comune ed etica. Due concetti che non implicano un “comportarsi bene” generico, ma riguardano la responsabilità umana. I testi e la vita di Kane parlano di questo. Oggi ci infuriamo perché attribuiamo alla politica una responsabilità sociale che sentiamo tradita, ma siamo noi stessi, in prima persona, a non assumerci questa responsabilità. Mi spiego meglio: un tempo le persone avevano un’ideologia – parola  pericolosa, ma necessaria – e la politica rispecchiava le idee di quelle persone. Oggi siamo sempre più egoisti, più concentrati su noi stessi e questo si riflette nella stessa politica: è un gioco di specchi. Socialmente parlando, dalle persone, prima soggetti protagonisti, si è passati ai sistemi: al popolo russo e a quello ceceno sostituiamo Putin e Kadyrov; a quello americano, Trump. Non ci accorgiamo che il discorso riguarda gli ecosistemi, i problemi globali, e soprattutto le persone. Se non riusciamo più a vedere gli individui nella sovrastruttura, tutto diventa pericolosamente astratto. È proprio qui che le parole di Sarah entrano in gioco: “se sperimentiamo in teatro, come pubblico, quel che significa commettere un atto di violenza estrema, magari ne proveremo una repulsione tale da impedirci di andare a commettere un atto di violenza estrema fuori nelle strade”. Il teatro in questo senso diviene uno strumento di sperimentazione necessario per la nostra vita, anch’essa luogo di sperimentazione. Sperimentando dovremmo riuscire a guadagnare consapevolezza, cercando poi di essere all’altezza di questa consapevolezza. “Credo che la gente possa cambiare, e credo sia possibile cambiare il nostro futuro, ed è per questo che scrivo quello che scrivo” diceva Kane. Il suo apporto culturale non è da letterata talentuosa slegata dal contesto: il suo è un impegno sociale e, oltre, è un impegno umano che racconta di un teatro legato alla polis. In Kane, come negli archetipi del teatro, la trama non è così importante, è già avvenuta. Ciò che importa è la sua rappresentazione perché pone allo spettatore delle domande.

In quest’epoca, come notavi, ogni essere umano sembra farsi simbolo, tramutarsi in sintomo della società stessa. In 4:48 Psychosis una delle frustrazioni che viene raccontata da Kane è questo essere vista solo attraverso i suoi sintomi, essere letta come una metafora di qualcos’altro. Cosa intendeva Kane con il concetto di metafora?
In un dialogo molto probabilmente immaginario, ma profondamente realistico Kane dice a un medico “mi sento come avessi ottant’anni. Sono stanca di vivere e la mia mente vuole morire”. Lui riconosce in questo una metafora, e lei risponde “non è una metafora, è una similitudine, ma anche se fosse, la caratteristica tipica della metafora è che è reale” rendendo chiara la sua lucidità rispetto a quello che sta vivendo e alle trappole del linguaggio. È un discorso complesso che anche Susan Sontag analizza nel suo libro Malattia come metafora (Torino, Einaudi, 1979 ndr). Il libro si conclude così: le nostre idee sulle malattie sono “un veicolo delle gravi insufficienze di questa cultura, di un atteggiamento superficiale verso la morte, delle nostre ansie emotive, delle sconsiderate e imprevidenti risposte al nostro vero ‘problema di crescita’, delle nostre incapacità di creare una società industriale avanzata, in grado di regolare correttamente i consumi e delle nostre paure, giustificate, di un corso sempre più violento della storia”. Intendere la malattia come una metafora è pericoloso, ancor più in un mondo che cerca di nasconderla e con essa la violenza. Il vivere in metafora per Sarah trasforma ogni atto in “un simbolo il cui peso mi schiaccia”. Quando tutto è metaforico, la vita diventa sovraffollata di segni. Ogni parola e ogni azione mutano forma, divengono un “segno di”: se rompo un bicchiere significa che non so tenere in mano, quindi mantenere le redini della vita e così via. Ogni giorno diviene un labirinto di segni dal quale è difficile uscire.

E come possiamo trovare una possibile via di fuga?
Credo sia necessario avere da una parte una visione verticale, d’insieme, dall’altra saper godere della vita come naturale flusso. Se guardando il mare so che la sua bellezza è dovuta a milioni di formule chimiche, non significa che non mi meraviglierà. Dovrebbe esserci una visione che non nega l’oggettività di ciò che abbiamo di fronte, ma che sia in grado di trascenderlo. Come sottolinea Susan Sontag a volte è necessario rimanere semplici e non è detto che chi non sa non possa stupirsi. Oggi si viene sopraffatti dalle informazioni, dai sintomi, dai simboli e dalle cose, mentre dovremmo essere in grado di vivere godendo della bellezza senza farci soggiogare da ciò che ci circonda.

4:48 Psychosis è un testo  pieno di una vitalità e di un amore che strizzano l’occhio, anche attraverso lo humor nero, alla disperazione e alla morte. Come ti sei confrontata con un testo che è l’ultima espressione di un’autrice tanto complessa?Vorrei fare una premessa: quando si mette in scena un testo di Sarah Kane sembra imprescindibile dover riflettere sulla sua morte. In realtà il suo suicidio è un fatto privato che non influisce sull’importanza del testo. Citando Pavese “pochi pettegolezzi!”. Ho cercato di leggere ciò che ha scritto con rispetto: nessuno di noi sa delle vite altrui e ancor meno di quello che è successo quella notte di febbraio del 1999. Quel fatto non toglie nulla alla potenza delle sue parole, al messaggio di speranza che contengono, anche se proveniente da un abisso. Di 4:48 Psychosis mi piace sottolineare come Kane usi lo humor, quell’intelligenza che prende in giro. Questo humor riesce a divertire nonostante metta in luce le pieghe più oscure dell’animo umano.

Quale pensi sia oggi l’apporto più significativo di un testo come 4:48 Psychosis e di Kane come autrice? E come risponde il pubblico alle sue parole?
Nelle tre settimane di repliche all’Out Off è stato straordinario vedere moltissimi giovani che riempivano il teatro. Credo sia un segno della capacità di Kane di parlare loro intimamente: i giovani  capiscono il suo disagio e la sua malinconia, non intesi però come stati dell’animo umano da nascondere o necessariamente da guarire. Penso quella attuale sia una generazione di ragazzi che sente di essere parte di un cambiamento ed è, anche per questo, toccata da una donna come Sarah Kane, essa stessa alla “ricerca di”. Per quanto riguarda invece la sua importanza oggi, Kane è “autrice importantissima per tutti noi europei” come ha sottolineato la docente di storia del teatro inglese e drammaturga Margaret Rose, in un recente incontro. Sarah è un classico come l’ha definita Edward Bond e lo è perché attinge a un teatro antico, per i cittadini, dove esiste ancora il desiderio di sentire partecipi gli spettatori. In un’intervista Kane si definisce un “hooligan del teatro”, esprime cioè quel desiderio di sentire partecipi le persone a ciò che vedono in scena, di rendere nuovamente il teatro un argomento di cui discutere e, oltre, uno spazio per la comunità. Viviamo tra eccessi di autobiografismo e di morbosità: è come se volessimo portare tutto al sé, pensando che le micro narrazioni di noi mostrate nelle storie di Instagram siano la parte importante, ne siamo gelosi. Quello che ci mostra Kane è invece esattamente l’opposto. Il copyright libero dei suoi testi dà l’idea della sua statura umana. L’impossibilità dell’esclusiva è una cosa straordinaria: io stessa non avrei potuto metterlo in scena per tre settimane al Teatro Out Off se così non fosse stato.

Sarah Kane diceva che “a volte la scelta viene dopo”. Tu sul palco in questi anni hai vestito i panni di innumerevoli donne, sei stata tu a sceglierle o loro hanno scelto te, dopo?
A volte la scelta viene dopo” è una di quelle frasi che illumina 4:48 Psychosis. In effetti è vero, perché – pur non escludendo il libero arbitrio – la scelta spesso viene dopo. Fatte una serie di scelte, non puoi più tornare indietro. È un paradosso. Mi spiego meglio: Riccardo Terzo è sì cattivo, ma questo non esclude che lui abbia un’umanità molto forte, una cui parte è scegliere di agire contro l’umanità. Qualcosa di simile accade ad Anna Politkovskaja quando tutti le dicono di non tornare in Russia perché sarebbe troppo pericoloso. Lei ha la madre che sta morendo e la figlia che sta partorendo e ci torna. Lì verrà assassinata. Perché lo fa? Perché il suo modo di rapportarsi al mondo, le sue scelte, hanno fatto sì che non potesse fare altrimenti. La scelta è già avvenuta, ed è lì che si compie il destino. Se la scelta fosse stata diversa quell’atto si trasformerebbe in incoerenza profonda, in un atto fuori dall’umanità. Credo le persone che troviamo ispiratrici lo siano proprio per la loro coerenza intellettuale, una cosa che personalmente mi dà forza, portandomi ad esserlo io stessa. Anche coloro che hanno una coerenza nel male, pur non permettendoci di rispettarli, hanno almeno un’identità precisa. Non c’è cosa che fa più ribrezzo del vedere le persone che cambiano idea a seconda di cosa conviene. Il traditore è sfiduciante e destabilizzante per l’umanità tutta, porta a chiedersi se l’uomo possa essere realmente una persona. Sarah lo dice chiaramente: “il mio corpo scompensa / il mio corpo vola in pezzi / più nulla cui aggrapparsi”, perché è stata tradita e il tradimento la lacera. Personalmente ho scelto di interpretare donne come Kane per coerenza, quindi sì, direi che non avrei potuto scegliere altrimenti.

Dopo quasi duecento repliche com’è continuare a confrontarsi con questo testo?
Mi ha accompagnato, ogni volta è più bello: crescendo la mia consapevolezza come essere umano quelle parole mi toccano sempre più nel profondo. Mi sono resa conto che questo testo è veramente un “Re Lear”, un ruolo ai confini dell’umano. Ogni battuta è come fosse “il mio regno per un cavallo”, è   Basti pensare a “siamo anatema / i paria della ragione… Noi siamo gli abietti / che destituiscono i nostri capi / e bruciano incenso a Baal”. Sono parole che contengono un mondo, che ci dicono come noi non ci si trovi – in teatro come nella vita – a guardarci negli occhi per caso. Alcuni grandi artisti hanno guardato l’abisso e ce lo hanno raccontato, restituendo la potenza, la profondità che un essere umano può raggiungere. Se leggendo Edipo ci rendiamo conto che dopo duemilacinquecento anni la situazione dell’essere umano e le domande che ci poniamo sono uguali, vuol dire che qualcosa di archetipico ci lega. È  nell’archetipo e nell’epicità, il valore di 4:48 Psychosis.[C. F.]

intervista a cura di Camilla Fava
approfondimento e contesto a cura di Emanuela Gussoni


4:48 Psychosis

di Sarah Kane
regia: Valentina Calvani
con Elena Arvigo
scene, costumi e luci: Valentina Calvani e Elena Arvigo
musiche originali: Susanna Stivali

Visto al Teatro Out Off di Milano il 18 gennaio 2019