di Mattia Torre

Visto al Teatro Franco Parenti di Milano _  12 Ottobre-6 Novembre 2011

Il libeccio che snerva gli animi e l’attesa che incombe, proprio come l’insaccato appeso che oscilla sulla tavola: questo l’inizio del racconto di Mattia Torre. Una cucina, una pentola sul fuoco e tre membri di una famiglia alla vigilia di una cena cruciale: davanti allo spettatore i preparativi concitati e le parole febbrili scandite in un dialetto inesistente, impastato di siciliano, sardo, napoletano, lucano.

Chi conosce Torre come firma dell’amatissima serie “Boris” (riflessione sardonica sul mondo della fiction made in italy) o come autore di “Parla con me”, forse rimarrà stupito: 456 non è affatto una commedia televisiva né un format teatrale così strettamente legato al contemporaneo. Torre si limita ad offrire quello che nel teatro italiano, se ci si riflette bene, è una rarità: un testo drammaturgico originale, pulito, non pretenzioso, intelligente e attori che lo sappiano far funzionare. Tre quarti dello spettacolo si muovono sapientemente intorno al nulla: c’è il menu da ripassare ancora e ancora, c’è da ripetere per l’ultima volta la scaletta programmata degli interventi che renderanno fluida la conversazione con l’ospite (“ripassiamo ‘a recita’”), c’è il ‘sugo perpetuo’ – eredità della nonna deceduta da quattro anni – da rimestare.
Gli eventi cominciano ad accelerare solo con l’arrivo dell’ospite, che fa cadere, ad una ad una, le molte aspettative riposte nell’incontro: sceglie di arrivare per merenda e non per cena, si presenta senza la compagna (“ ’a francisa”), depositaria di una pentola prestata che mai verrà restituita (“ti prego tiella, torna”, prega invano Maria Guglielma, la mater familias), demolisce passo per passo i discorsi tanto a lungo preparati. Da qui, tutto non potrà che peggiorare: la situazione degenera rapidamente (forse troppo, quasi ci fosse fretta di chiudere lo spettacolo) a suon di tavoli spostati, frutta secca tirata, insaccati lanciati.

A prima vista, il sud raccontato da Torre è fin troppo stereotipato: gli “zitta” del padre alla madre, l’ossessione del cibo (“liberami da questa ossessione di insaccati e pasta al forno” prega il figlio lontano dai genitori, in proscenio), l’abbandono del nido famigliare come tabu (“Come fai ad accettare cibo da chi non conosci? Non hai le difese immunitarie per mangiare fuori!” ammonisce il padre). Tuttavia, nella descrizione di certi meccanismi ancora persistenti in certo sud (che sono meno rari e lontani di quanto appare ad un primo sguardo), c’è qualcosa di universale. Torre racconta le alleanze che continuano a variare nella geografia familiare, lo snervante gioco delle parti impossibile da disinnescare, la coazione a ripetere, la difesa strenua e morbosa di un territorio affettivo e diviene così quasi un Eduardo contemporaneo. I bravissimi attori (Carlo De Ruggieri, Massimo De Lorenzo, Cristina Pellegrino e Franco Ravera) tengono vivo un impeccabile meccanismo di tempi comici, variando di continuo toni e ritmi, in bilico perfetto tra farsa, commedia e tragedia. Viene in mente, mentre il pubblico ride partecipativo, la satira oraziana: “rides? mutato nomine de te fabula narratur”.

Maddalena Giovannelli