Di Stefano Massini
Regia di Alessandro Gassmann
Visto al Piccolo Teatro Strehler di Milano_23-28 febbraio 2016
Con 7 minuti Stefano Massini torna ad occuparsi di crisi dopo la pluripremiata trilogia dei Lehman Brothers. Alla regia questa volta non c’è Luca Ronconi, di cui proprio in questi giorni si celebra la scomparsa con una doppia esposizione (Ronconi, il laboratorio delle idee presso le Officine Ansaldo e al museo teatrale Alla Scala e Spazio, Tempo, Parola nel neonato spazio Rovello 2, presso il Piccolo Teatro Grassi) ma Alessandro Gassmann. Un nome, quest’ultimo, che da qualche tempo alla consolidata reputazione pop ha aggiunto – quasi insieme alla seconda enne del suo cognome – consensi per la sua attività teatrale e plausi per il suo impegno civile. Se a settembre lo avevamo infatti avvistato, ramazza alla mano, mentre lustrava le strade della capitale al grido #romasonoio, già da diversi anni Gassmann è, oltre che testimonial per Amnesty International, direttore del Teatro del Veneto “Carlo Goldoni”. Appare quindi perfettamente in linea con questa tendenza “impegnata” la scelta di firmare la regia di uno spettacolo completamente incentrato sui diritti delle lavoratrici di un’azienda tessile. Chiamate a discutere sulla decisione della nuova gestione aziendale di dimezzare la pausa-turno (i 7 minuti del titolo), le undici protagoniste dovranno votare e decidere se, in tempi di crisi, dislocazione, disoccupazione e annessa disperazione, la dignità dell’essere umano ha ancora un valore autonomo o se è solo un’altra merce di scambio, nella trattativa quotidiana per la sopravvivenza.
“Tratto da una storia vera”. La scritta proiettata sul telo trasparente che separa il palco dalle sedute compare in “sovraimpressione” a inizio rappresentazione avvertendoci, fin dalle prime battute, come ciò che andremo a vedere sia fortemente connotato da un’estetica e da un linguaggio cinematografici ancor prima che teatrali. Lo si nota bene nella gestione delle unità spazio-temporali: quando la durata della narrazione subisce improvvise accelerazioni l’immagine di un orologio si sovrappone a quella principale in una continua dissolvenza incrociata come nella più classica delle pellicole; ed è sempre con la medesima tecnica che vengono evocati gli spazi “altri” (i filari di macchinari nelle enormi camerate su tutti) al di fuori dello spogliatoio dove si svolge la riunione. Da grande schermo sono poi le focalizzazioni sui personaggi (occhio di bue agiografizzante e tappeto musicale accompagnano ogni monologo in prima persona) e i titoli di coda finali, ma anche e soprattutto la scelta recitativa, oltre che scenografica, improntata su un risoluto naturalismo. È infatti solo Ottavia Piccolo – vero e proprio corifeo di questo coro “da reparto” – a concedersi un certo afflato istrionico (non poi troppo distante da quello di certi sindacalisti), mentre il resto del cast sembra chiamato a interpretare il ruolo delle caratteriste di livello: incarnazioni popolari e popolareggianti della classe operaia/impiegatizia di riferimento. È evidente nella parlata marcatamente romanesca di alcune a cui risponde, in un consumato gioco delle parti, la cadenza cantilenante (verissima quanto fastidiosa) dell’unica esponente lombarda; è significativo nelle operaie/impiegate immigrate (africane, slave e arabe) che con la sola presenza accentuano la dimensione (post) neorealista dell’opera.
E data una parentela tanto stretta col cinema, è impossibile non riandare con la mente a due lungometraggi: Due giorni, una notte dei fratelli Dardenne e La parola ai giurati di Sindey Lumet. Se col primo la somiglianza è tematica (il solo modo di un’operaia per evitare il licenziamento è convincere i colleghi a rinunciare a un premio di produzione indetto ad hoc per scoraggiare ogni rappresaglia sindacale); col secondo a fare da ponte è il meccanismo dialettico (una giuria frettolosa e giustizialista viene convinta da uno dei suoi membri a dare all’imputato il beneficio della presunta innocenza). Pur non riuscendo a trovare lo stesso vigore narrativo né la solidità drammaturgica anti-retorica dei modelli, l’opera di Massini-Gassmann-Piccolo ha tuttavia il merito di farsi portavoce con ugual convinzione di istanze sociali ed etiche poco visitate dal teatro main-stream. 7 minuti sarà pure uno spettacolo con più di una fragilità, un’opera che al vaglio di un giudizio critico-estetico non potrà sfuggire a qualche (meritata) riserva. Eppure è uno spettacolo utile. È utile perché sollecita una coscienza collettiva, intorpidita nella convinzione, intimamente qualunquista, della vana capziosità delle vertenze sindacali. È utile perché ci ricorda che alla base dell’estenuante, spesso noiosa, miserevole e micragnosa disputa sui diritti dei più deboli non c’è solo il vuoto idealismo di qualche piantagrane, ma una lotta concretissima per la propria libertà di essere umano.
Corrado Rovida