di Bonn Park
regia Renzo Martinelli
visto a Teatro i di Milano_2-22 marzo 2016

Dopo la scia politica del Sessantotto, il teatro tedesco virò la sua attenzione sull’esistenza privata, sul singolo e sui suoi moti d’animo. La riflessione su una democrazia politica raggiunse il suo culmine e contemporaneamente il suo epilogo con l’Orestea di Eschilo nella messa in scena di Peter Stein (1980). Il teatro degli anni Ottanta, dunque, non ebbe più la pretesa di cambiare il mondo, meno che mai di spiegarlo; si allontanò dalla politica per diventare teatro dell’individuo in tutte le sue sfumature sentimentali. Nei drammi di Botho Strauss e Peter Handke campeggia il singolo protagonista, le sue crisi, le sue incertezze, il suo ruolo in comunità fragili, vacillanti, in rapporti umani e sentimentali instabili se non conflittuali. Sulla scena, si rappresentò l’odissea di esseri umani incapsulati nella loro solitudine, persi per le strade labirintiche di una società recintata, difesa dai cementizi muri dell’esistenza borghese. Tornò dunque al centro del fatto teatrale il soggetto e il suo microcosmo affettivo, la famiglia, pochi amici, relazioni di coppia: un soggetto però non più in grado di agire come nel dramma classico, che si svelava invece spogliato di ogni possibile eroismo, annegando piuttosto in una tristezza paralizzante e senza speranza, in un accadere dei fatti che sfugge ad ogni razionalità. Un nuovo inizio e un ritorno al politico fu segnato dal teatro ‘post-drammatico’ degli anni Novanta: il teatro divenne teatro di voci, voci che si confondono, si succedono, si accavallano, senza che si capisca chi parli. Anzi: parla un noi collettivo, nel quale l’individuo si dissolve, scompare. Il primo testo di questo genere fu Nuvole.Casa (1990) del premio Nobel Elfriede Jelinek, intreccio di pensieri dalla filosofia idealistica di Hegel e Fichte, da versi patriottici di Hölderlin, dal discorso rettorale di Heideger del 1933, dalle lettere degli esponenti del gruppo terroristico della RAF. Un testo scritto per il teatro, ma contro il teatro: ‘Io non voglio alcun teatro – dichiarava la Jelinek – Voglio un altro teatro’. Il teatro ridiventava politico, ché le voci della Jelinek raccontavano di un germanesimo come metafora di una società chiusa, incapace di aprirsi all’esterno e di fare i conti col proprio passato, con la Shoah innanzitutto. Il teatro fu così restituito alla politica, e anche ai suoi spazi deputati, i teatri pubblici, istituzionali, sempre più inattuali rispetto agli altri spazi comunicativi delle immagini e della parola. Il teatro si adegua all’epoca digitale, allarga le sue dimensioni estetiche. Politico non è più il suo contenuto, ma piuttosto la sua maniera rappresentativa, che si apre in maniera estrema all’innovazione estetica e alla contaminazione, svelando il potenziale politico di tutti gli elementi della cultura di massa, della comunicazione web, degli slogan, dei luoghi comuni di cui siamo sommersi. Rendendo cioè visibile sulla scena lo spaesamento, il disordine, decostruendo il discorso e con ciò minando le fondamenta della razionalità politica (Hans-Thies Lehmann). L’effetto sortito (aristotelicamente?) consiste nello sconvolgimento dei personaggi e degli spettatori, in un’estetica delle emozioni (tragiche e comiche insieme).

Questa tradizione estetica giunge a Bonn Park, autore tedesco-coreano nato nel 1987, con un’ottima formazione drammaturgica presso il più politico dei teatri berlinesi, la Volksbühne (che fu il teatro ufficiale della DDR). Il suo ultimo testo, Piangiamo la scomparsa di Bonn Park, rappresenta in maniera brillante lo spezzarsi della linearità, della causalità, della connessione degli eventi, sulla scena e ovviamente nell’esistenza; rappresenta l’estinguersi della voce autoriale (l’autore è morto) e la demistificazione di quella attoriale (i ruoli non sono fissi), l’infrangersi delle maschere proprio attraverso la loro tipicità (come in un ‘giallo’) che le rende illusoriamente riconoscibili: in quest’universo rifratto in voci, suoni, luoghi comuni, immagini risapute, nulla si tiene, meno che mai l’identità dell’individuo come punto d’osservazione della realtà. E tuttavia proprio questa apparente messa in scena della rinuncia diviene atto politico: perché l’inchiesta sulla morte di Bonn Park altro non mostra che la refrattarietà, anzi la vera e propria resistenza alla dominanza della società, presunta assassina dell’autore, da parte del teatro (inteso come comunità di autore, attori, pubblico); è un ironico rifiuto dell’omologazione, una rivolta dell’individuo alla perdita di sé e delle sue ragioni. E dunque il funerale dell’autore, suicida ma insieme vittima di un omicidio, inconsapevole portatore dell’angoscia traumatica post 11 settembre, non ha nessuna importanza, è un rito stanco e malato di una società patetica e ipocrita persino nell’espressione del dolore. E infatti lo spettacolo fa soprattutto ridere, diverte. Eppure proprio perché di Bonn Park ce ne «fottiamo», vi ritroviamo parte di noi. E noi non vogliamo, in fin dei conti, assistere al nostro funerale.

Il testo va inteso anche nella cornice che gli è propria: e cioè il paesaggio metropolitano di Berlino divenuto luogo di sperimentazione estetica, un laboratorio architettonico a cielo aperto, dove i nuovi edifici vertiginosi di acciaio affondano i loro denti aguzzi nel celebre cielo stanco della storia, i confini sono divenuti musei oppure anfiteatri da Karaoke, gli infiniti cantieri lucidano le cicatrici visibili del passato, sul cratere lasciato dal palazzo della Repubblica comunista si edifica un castello settecentesco in pieno XXI secolo, come in un video gioco. Una città di vuoti da colmare, ferite non rimarginabili, strade del ricordo, nel cui solo nome si inciampa. La città degli artisti che aspirano, come Bonn Park nel suo testo, a una lapide tra Bertolt Brecht ed Helene Weigel, nel cimitero più nobile della città, il cimitero dei filosofi e degli scrittori, che Brecht guardava dalla finestra di casa sua negli ultimi anni berlinesi. La città perciò, come tutte le città d’artisti, dove si incontrano centinaia di storie di felicità sperate e poi perdute. Berlino, la città del disincanto.

Il testo di Bonn Park aspetta la ‘prima’ in un paese germanofono. E poiché in questo testo post drammatico quel che conta è come viene rappresentato, bisogna dire che davvero riuscita è la messa in scena di Luca Toracca, Paola Tintinelli, Vincenza Pastore, Massimo Scola con la regia di Renzo Martinelli e la drammaturgia di Francesca Garolla, traduzione (ottima) di Adriano Murelli. Si auspica perciò che Bonn Park continui a scrivere, magari in una direzione più politica e meno autoriflessiva, anche esteticamente; e soprattutto che trovi compagnie così bene in grado di dare una adeguata dimensione teatrale ai suoi testi.

Sotera Fornaro