Farsi luogo di Marco Martinelli
Cue Press, pp. 47

Appunti sparsi. Riflessioni non consequenziali, e volutamente disorganiche. Tentativi di dar forma verbale ai principi che muovono il proprio agire, alle passioni che lo motivano, agli errori che lo intralciano.
Mentre scorrevo le pagine di Farsi Luogo –  un volumetto da poco uscito per i vitalissimi tipi di Cue Press e firmato da Marco Martinelli – mi è balzato in mente un modello certo ingombrante ma non così alieno dall’orizzonte frammentario dello scritto: A se stesso (Ta eis eauton il titolo originale) di Marco Aurelio. L’opera è una affascinante anomalia, per molti motivi: sono le riflessioni di un imperatore romano che scrive in greco, e che alle tattiche militari o agli approfondimenti storiografici preferisce meditazioni in solitaria. Un unicum nell’intera letteratura antica.
Si tratta per lo più di brevi aforismi posti uno di seguito all’altro senza cura per i legami logici: sulla morte, sulla vita, sulla natura dell’uomo (“Non si compia alcuna azione se non conformemente ad un principio che contribuisca a realizzare l’arte del vivere”, oppure “Ciascuno vale quanto valgono le cose cui ha rivolto il suo impegno”). In modo analogo procede Farsi Luogo: anche qui la composizione è articolata in brevi paragrafi (101 in totale), alcuni dei quali estesi solo poche righe, che spaziano liberamente da considerazioni filosofiche alla guida per l’azione, dalle idee sul teatro al ricordo personale.

Gli studiosi hanno a lungo discusso a proposito di A se stesso, chiedendosi chi fosse (e se ci fosse) il destinatario dell’opera, e se sia stato pensato per una pubblicazione. Farsi Luogo non lascia spazio a dubbi su questo punto, perché Martinelli dichiara la propria apertura all’interlocutore, ribadisce ripetutamente la necessità di una reale comunicazione. Cerca un ‘tu’, lo pungola e lo provoca (“Se lo vuoi correre questo pericolo, bene, se no non so che dirti”, “Asinello dico a te! Rispondi!”), sceglie a chi rivolgersi di volta in volta (“parlo soprattutto a voi, giovani”, oppure “e qui parlo a te, regista famoso”), ed esplicita la fisionomia del destinatario ideale (“Se invece queste prime povere paginette qualcosa ti hanno smosso, è a te come te che parlo”). Impossibile non notare, poi, come la comunicazione con il lettore sia cercata sul piano di un’oralità tutta teatrale: fin dal secondo paragrafo si susseguono le forme del verbo parlare (“Sto parlando, parlo, del teatro…”), come a ribadire la natura immediata della relazione, a valicare la distanza di quel medium cartaceo o digitale.

C’è tutto di Martinelli e delle Albe in queste poche pagine: l’importanza dei modelli antichi (Aristofane, Ruzante, Brecht), dei maestri incontrati nel percorso (Leo de Berardinis, Carmelo Bene, Odin Teatret), il teatro come ‘eresia’ (quella delle miriadi di adolescenti in scena, “esseri sbilenchi e contorti e lacerati”), il palco come luogo del ‘meticciato’ (la rivoluzionaria Romagna africana degli anni ’80), e molto altro. C’è la storia personale (“Ho sposato Ermanna nel 1977, avevamo vent’anni, due asini”), quella della tribù Albe, e pure la menzione dell’intera larghissima famiglia del teatro (dalle maschere ai tecnici, dai critici allo spettatore). Eppure non si ha mai la sensazione – ed è questo uno degli aspetti di maggiore interesse del libro – di un’opera rivolta soltanto agli addetti ai lavori: è piuttosto una dichiarazione d’amore al teatro inteso come luogo privilegiato della relazione, dell’incontro, dell’interlocuzione con l’altro. Farsi luogo è uno spazio di ricerca – al tempo stesso teorico e pragmatico – rubato alla vorticosa giostra degli impegni quotidiani, per ricordare a se stessi che cosa sia davvero urgente e necessario tra le molte che affollano le nostre giornate. Ed è in questa prospettiva che potremo scoprire consonanze e trovare molto di universale nella più personale delle trattazioni.

Maddalena Giovannelli