«Gli umani avevano davanti solo il giorno della loro morte: io ho portato più luce», sentenzia Galileo a conclusione di uno spettacolo che porta in scena alcuni dei dilemmi posti dalla scienza alle nostre vite. Frutto della collaborazione di due drammaturghi (Angela Demattè e Fabrizio Sinisi) e di due registi (Andrea De Rosa e Carmelo Rifici), Processo Galileo invita insomma lo spettatore a interrogarsi sul proprio presente.

Varcata la soglia del teatro LAC di Lugano, il pubblico, collocato su una tribuna direttamente sul palco, si affaccia su una scenografia minimalista, progettata da Daniele Spanò quasi come un’installazione, in cui si muovono sei attori che danno voce a diversi personaggi. Dopo un prologo che alterna la rievocazione del processo allo scienziato pisano del 1633 a lettere in cui la figlia Virginia esprime la propria preoccupazione per le sorti del padre e a interventi del discepolo Benedetto, a prendere parola è Angela, una giovane ricercatrice dei nostri giorni. Nell’interrogarsi sulla sua identità, in particolare su come far coesistere il suo essere madre, scrittrice e scienziata, la donna pare chiamare sulla scena varie voci, fantasmi del passato e del futuro, della sua vita personale e della Storia. Così sua madre, portatrice di un sapere più tradizionale, che alla ricerca di conoscenza della figlia predilige la semplice e quotidiana coltivazione della terra, dà consigli sulla concimazione alla monaca Virginia, mentre Galileo ha la possibilità di udire la testimonianza di un uomo del futuro, che racconta di un mondo in cui tutto è calcolabile e di conseguenza prevedibile. Una distopia in cui regnano dati e numeri, in cui vengono a mancare la poesia e la bellezza.

Alla difficoltà di Angela nel processare il lutto per la morte della madre, al dolore nello spiegare tutto ciò al figlio, si sovrappone una riflessione sull’inventore del metodo scientifico e sul ruolo della scienza, d’oggi come di ieri. Galileo, accusato di eresia dall’inquisizione cattolica per aver praticato una dottrina contraria alle sacre scritture e perciò considerata falsa, è costretto all’abiura. Oggi la ricerca scientifica si trova invece in stretta relazione con il potere e con la politica. E la paura è che possa diventare una “nuova fede” ideologica, orientando scelte e vite degli esseri umani.

Il contenuto ben si adatta alla sua forma: una messa in scena in cui ogni elemento è speculare e simmetrico, artistico e matematico allo stesso tempo. All’esplorazione del cielo si contrappone la coltivazione dell’orto, concretizzate nella presenza di luci e terra nella scenografia. Nei costumi, appaiati per foggia e colori, a emergere sono le tinte della pittura seicentesca. E i sei attori, infine, tre uomini e tre donne, incarnano il dialogo tra padri e figli, o più in generale la trasmissione del sapere di generazione in generazione. A convincere meno è forse lo spazio scenico completamente aperto sul fondale tecnico del teatro, dove invece una delimitazione più netta, per esempio con delle quinte nere, avrebbe contribuito a rendere la scena più raccolta, favorendo la concentrazione.

Sul piano drammaturgico, il lavoro coordinato di Processo Galileo unisce diverse sensibilità autoriali e le rispecchia nella pluralità di voci e storie messe in scena, dando vita a una tensione drammatica che al suo apice dà vita a momenti poetici ed altamente espressivi. La convivenza di più piani temporali in uno stesso spazio, in particolare, che può lasciare confuso uno spettatore poco avvezzo al linguaggio teatrale, permette di annullare il tempo, dimostrando che parlare di scienza attraverso l’arte può essere estremamente affascinante.

Gaia Caruso


Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico LACritica