“Non esiste un luogo immutato e immutabile perché inevitabilmente, prima o poi, qualcosa accade: la realtà rompe i confini del microcosmo che hai recintato e tutto assume un’altra forma”. Recita così il manifesto di World breakers, trentaseiesima edizione del festival di performing arts Drodesera che ha avuto luogo dal 22 al 30 luglio nella centrale idroelettrica di Fies, in Trentino. Un luogo che per lungo tempo è rimasto immutato nella sua funzione di produzione di energia elettrica, ma che ha acquisito una nuova vita quando è stato “invaso” dal teatro. Le sale portano ancora oggi i nomi delle funzioni che le hanno caratterizzate – Turbina, Sala Comando, Forgia, Galleria Trasformatori – e, ovunque, rimangono tracce della storia di questo splendido esempio di archeologia industriale, che continua anche oggi, seppur in forma diversa, a innescare meccanismi di produzione di energia.
Il titolo dell’edizione 2016 vuole essere un inno a tutte quelle dimensioni artistiche ed esistenziali che escono dagli schemi, aprendosi a possibilità diverse e impensate, interrogandosi sul rapporto tra presente, passato e futuro e sulle relazioni che costruiamo ogni giorno attraverso le nostre azioni fisiche e mentali. World breakers è quindi il nome di un festival che vuole raccontare un distaccamento dal qui e ora, superando l’abusata pratica di “fotografare il reale” e utilizzando il pensiero laterale per giungere non tanto a nuove soluzioni, ma a nuove domande.
Quest’anno ben quattro “mondi” si sono incontrati a Fies: il festival vero e proprio, caratterizzato come sempre da nomi di spicco nel panorama teatrale italiano e internazionale (World 1); la quarta edizione di Live Works, bando aperto allo sviluppo e alla produzione di nuove azioni performative (World 2); Urban Heat, workshop di ricerca che ha interrogato 12 artisti intorno al rapporto tra uomo e natura (World 3); e infine Helicotrema, un “festival nel festival” gestito dal collettivo Blauer Hase e ispirato ai primi decenni delle trasmissioni radiofoniche (World 4). Un programma denso e vario, che ha fatto confluire a Dro un numeroso popolo di professionisti, appassionati e curiosi.
Gli ultimi giorni si sono rivelati particolarmente ricchi di stimoli, inanellando nel più puro stile Fies una serie di spettacoli molto differenti l’uno dall’altro per poetica e linguaggi, talvolta al limite stesso della teatralità tradizionale, ma accomunati da una profonda ricerca di significati.
Uno degli esempi più estremi si è rivelato il nuovo progetto di CollettivO CineticO, dal suggestivo ed enigmatico titolo La casa di pietra del fratello maggiore. La compagnia ferrarese di Francesca Pennini si è da sempre distinta nel panorama nazionale per un’attitudine alla commistione tra differenti codici espressivi – danza, teatro, performance, game-show – e per l’attenzione alla dimensione del caso e all’interazione diretta con lo spettatore. Il lavoro presentato in prima nazionale a Dro integra tutte queste caratteristiche, cercando di portare la ricerca a un livello successivo. Il format prevede l’ingresso allo spettacolo in gruppi di sei persone, benché la fruizione sia sostanzialmente individuale per quasi tutta la durata del percorso. Utilizzando un sistema basato sulla casualità e sulla scelta personale, CollettivO CineticO costruisce intorno a ogni spettatore un viaggio ispirato al mito di Cibele, dea assimilata alla Grande Madre Terra legata a riti di fertilità che storicamente potevano giungere fino all’autoevirazione.
Attraverso le viscere di pietra delle cantine adiacenti alla Centrale si snoda un percorso mistico, durante il quale si viene invitati a scegliere il proprio destino, estraendo visceri di sassi dal ventre di un orsetto di pezza e a relazionarsi con misteriose presenze mute o ciarliere, fino ad arrivare a una celebrazione collettiva finale. Allo spettatore/adepto è lasciata una possibilità di scelta relativamente ampia, soprattutto nelle dinamiche uno-a-uno con le entità che incarnano i protagonisti e simboli del mito. Il flusso di stimoli che vengono generati dal rapporto di condivisione dello spazio e dei movimenti con i performer rimane però sospeso, senza una conclusione. Lo spettacolo lascia molti interrogativi aperti: che direzione prenderà la ricerca del gruppo? Questo progetto rappresenta solo una prima tappa di un lavoro più complesso o rimarrà come esperienza a sé? E infine, al di là dell’intrigante gioco a bivio, oltre la riflessione che un’esperienza di tipo “iniziatico” può generare, dove può essere spostato il limite della relazione tra corpo e pensiero?
In tutt’altra direzione, ma con uguale voglia di sperimentare, si muovono gli Anagoor. La compagnia veneta fa parte del progetto di residenza di Centrale Fies, che prevede un sostegno tecnico, amministrativo e creativo per alcuni artisti o gruppi con l’intenzione di accompagnare giovani realtà dallo stadio di “belle speranze” a quello di affermati professionisti. Anagoor non ha deluso le aspettative, procedendo con sicura determinazione lungo una strada caratterizzata da un classico rigore, voli pindarici figurativi e l’amore per temi a cavallo tra la storia antica e la proiezione nel tempo presente. L’ultimo lavoro, Socrate il sopravvissuto / come le foglie, presentato in prima nazionale a giugno al Festival delle Colline Torinesi, condensa in maniera esemplare i classici temi della compagnia, introducendo un importante elemento di novità: la trama portante dello spettacolo è tratta dal libro di Antonio Scudari Il sopravvissuto (Premio Campiello 2005). Il romanzo, a sua volta, si ispira liberamente al massacro della Columbine High School nel raccontare la lucida follia con la quale uno studente, durante il suo esame di maturità, uccide a colpi di pistola l’intera commissione lasciando in vita solo il professore di storia e filosofia.
La compagnia Anagoor ritrova in questa narrazione una sorta di moderna parabola in grado di condensare una complessa riflessione sul valore della pedagogia, integrando la restituzione scenica del romanzo con un approfondito lavoro sulla morte di Socrate e sul suo rapporto con Alcibiade, allievo prediletto e problematico al tempo stesso. In un efficace e mai scontato sovrapporsi di immagini e piani temporali, un professore liceale e il grande filosofo greco si confrontano, a distanza e indirettamente, sul significato dell’insegnamento, del dubbio e, sopra a tutto, del dialogo. Un dialogo che, se sembra essere la soluzione per giungere alla sapienza e a una più profonda conoscenza si sé e dell’altro, dimostra, tuttavia, la sua umana fallibilità. La poetica sempre pulita ed essenziale degli Anagoor, ricca allo stesso tempo di molteplici piani di lettura, riesce a costruire momenti di rara bellezza senza mai scadere nel puro manierismo e a trasmettere un messaggio preciso evitando la trappola della retorica.
La domanda in questo caso è molto più stringente e ha delle immediate ricadute sul modo in cui concepiamo il mondo. In un contesto politico e culturale nel quale l’insegnamento delle materie tradizionali sta passando in secondo piano e, allo stesso tempo, gli insegnanti si trovano a confrontarsi con nuove sfide educative di taglio sociale, quale posizione si deve prendere? Quale la strada da percorrere per trovare un compromesso tra l’umana imperfezione e la necessità di trasmettere valori e, cosa ancora più importante, di istruire al pensiero critico?
Anche la compagnia belga dei Berlin mette in scena un lavoro ispirato a una storia vera. In seguito allo scoppio della centrale nucleare di Chernobyl del 1986, il paesino ucraino di Zvizdal, che dà il nome allo spettacolo, fu fatto evacuare completamente. Solo due anziani, entrambi nati e cresciuti nel villaggio, decisero di restare contro ogni logica e ordine imposto. I Berlin, per ben cinque anni, sono andati a trovare Pétro e Nadia Opanassovitch Lubenoc, entrando con delicatezza nelle loro vite e filmando ogni fase della ricerca. Dalla richiesta dei permessi per entrare nella zona contaminata dalle radiazioni fino alla morte di alcuni animali, ogni piccolo aspetto costituisce un tassello di una storia che emerge poco alla volta.
Il materiale documentaristico è stato intersecato con la dimensione performativa grazie all’alternanza tra la proiezione dei filmati e la ricostruzione di alcuni episodi all’interno di tre modellini della fattoria. Il dispositivo scenico, che inserisce lo spazio della storia tra due ali di pubblico contrapposte, enfatizza con intelligenza la distanza che divide il nostro mondo da quello altro di Pétro e Nadia. L’universo nel quale si muovono i due è un mondo senza tempo, regno delle attese e della pazienza: i riferimenti storici e sociali appartengono a un’epoca ormai lontana ed è il ritmo biologico dell’uomo e della natura a dettare le sue regole. Dopo gli 80 anni, dei quali gli ultimi 30 passati in quasi totale solitudine, i pensieri si sfilacciano in una sorta di sospensione. La morte, la vita, la distanza, sono i temi che si intrecciano senza soluzione di continuità a un amore che si ostina a manifestarsi attraverso una fertile ironia.
Dopo aver assistito a Zvizdal le domande si fanno sottili, timorose di rompere un equilibrio purissimo, difficile da credere, ma ugualmente intenso. La storia dei due anziani è solo la restituzione di una vita comune, eccezionale esclusivamente per il contesto nel quale si è svolta? O rappresenta forse una parabola da ricordare e assimilare? Ma far assurgere la semplice quotidianità di questa vecchia coppia a modello e ispirazione non significherebbe corromperne la più intima natura?
Quella che è andata in scena a Centrale Fies durante il festival non è stata una rottura che si declina in una rivoluzione. Le rivoluzioni, come ci insegna l’astronomia, seguono traiettorie che apparentemente sono tese alla distanza, ma ritornano al punto in cui hanno avuto inizio. La rottura proclamata a World breakers è di natura diversa ed è proiettata in una direzione anomala. La domanda riacquista dignità in qualità di “dimensione” che ha diritto di esistenza in sè per sè. La vera frattura nel continuum del reale non è la mera proiezione in un altro reale, ma gli interrogativi che il movimento genera prima e dopo. Domande che potrebbero dichiarare, citando Walt Whitman, “Io esisto come sono, questo è abbastanza.”
Chiara Marsilli
La Casa di Pietra del Fratello Maggiore
di CollettivO CineticO/Francesca Pennini
visto a Centrale Fies_29-30 luglio 2016
Socrate il sopravvissuto / come le foglie
di Anagoor
visto a Centrale Fies_29-30 luglio 2016
Zvizdal
di Berlin
visto a Centrale Fies_28-29 luglio 2016