Solitamente, quando dobbiamo raggiungere il supermercato a due isolati da casa e percorriamo a piedi il tratto di strada che si snoda tra un palazzo e l’altro, non ci viene in mente che potremmo accorciare di molto il percorso lanciandoci dal nostro tetto a quello dell’edificio di fronte, rimbalzando da un cornicione all’altro e atterrando con un doppio avvitamento direttamente sul marciapiede di fronte all’entrata.
Volendo essere meno estremi, potremmo dire che raramente guardiamo allo spazio, e al nostro corpo nello spazio, adottando punti di vista diversi da quello indotto da un dato ordine architettonico, che riflette inevitabilmente anche un ordine di pensiero: lo spazio urbano ci fa muovere, ci unisce e ci separa in un modo che è soltanto uno dei modi possibili.
È allora evidente come, anche per chi preferisce restare coi piedi per terra, soffermarsi su una pratica come il parkour offra uno spunto per pensare e ripensare la sfera dello spazio, del corpo, dell’attivazione alla città, tutte idee che convergono in questa disciplina in maniera manifesta. È proprio questo l’intento dei sociologi Sebastiano Benasso e Luisa Stagi, che nell’articolo Tracce di corpi urbani (2013) ripercorrono l’origine della disciplina e la leggono in termini di riappropriazione dello spazio pubblico ed emancipazione dalle logiche ordinarie del quotidiano.
Inizialmente noto come art du dèplacement, il parkour nasce nelle banlieue parigine degli anni Ottanta, per poi diffondersi in diverse periferie metropolitane; non è un caso che abbia attratto in origine (e attragga tuttora, anche in Italia) gruppi di giovani figli dell’immigrazione, in un periodo storico di ristrutturazione economica e aggressive politiche securitarie, soprattutto nei confronti delle comunità immigrate. Questi uomini “del margine”, non integrati né nella cultura dei genitori, né in quella del loro paese, disegnavano sulla cartografia urbana, coi loro stessi corpi, percorsi propri e alternativi alle «rappresentazioni dello spazio»(di cui parla Henri Lefebvre in La produzione dello spazio,) volte a generare determinate forme di interazione sociale, trasformando in un immenso parco giochi una città indifferente al loro bisogno di ricreazione e di appartenenza.
In un flusso ininterrotto di salti, corse e capriole in cui gli ostacoli materiali diventano trampolini di lancio, il traceur (chi pratica il parkour) cerca il modo più efficiente per spostarsi da un luogo all’altro, ma secondo una logica di efficienza che sovverte il senso comune. Tutto ciò dà luogo, suggeriscono gli autori dell’articolo, alla creazione di un’eterotopia, uno spazio reale ma “altro”, in cui le consuete dinamiche spaziali, temporali e sociali sono sospese o rovesciate.
Oltre a risignificare lo spazio, il corpo nel parkour risignifica sé stesso: mediante un allenamento ispirato al “metodo naturale”, un addestramento militare – basti questo, in chiusura, come monito a non improvvisare… – basato sull’esercizio di movimenti naturali a cui il fisico “incivilito” non è più avvezzo, il corpo riscopre le proprie possibilità dismettendo i panni che la società gli cuce addosso, liberando, come osservano Benasso e Stagi, «uno spazio di espressività e desiderio».
Nei corpi di chi traccia percorsi invisibili sopra le nostre teste possiamo vedere allora l’incarnazione estrema, ma emblematica, del potere del gesto creativo dirompente – qui al confine tra sport, arte, performance – nel dischiudere prospettive e ridisegnare i contorni dello spazio. Fisico e immaginario.
Francesca Marmonti
Questo contenuto fa parte dell’osservatorio critico Raccontare le Alleanze