«Virtuosity without effort», virtuosismo senza sforzo: questa l’espressione in grado di sintetizzare l’esperienza che i giovani danzatori hanno vissuto durante la masterclass condotta, per il festival MilanOltre, da Daniele Bianco, danzatore della compagnia Le supplici e coreografo. Un concetto che, tra l’altro, costituisce le fondamenta della tecnica release, un metodo che prevede una precisa analisi del movimento, volta alla ricerca di spontaneità e all’ascolto di ogni singola parte del corpo.

Partendo dall’allineamento della colonna e dei principali canali energetici – caviglia, ginocchio e spina dorsale – Daniele Bianco chiede ai danzatori di prendere consapevolezza del legame indissolubile tra centro e periferia del corpo: da una posizione neutra a piedi paralleli, i giovani danzatori sono chiamati a indagare il riverbero che ogni singolo gesto ha in tutto il resto dell’organismo. Sperimentando quattro passi di base – push, slide, pivot e roll – i danzatori raggiungono la consapevolezza del movimento necessaria alla conoscenza del corpo stesso: una volta acquisiti questi gesti i danzatori possono cominciare a cercare di instaurare relazioni con l’esterno; all’inizio con il pavimento, “partner primario” e poi con tutti i piani possibili creati dal movimento stesso.

Presupposto necessario all’esperienza è l’apertura all’ignoto, a cui segue, senza bisogno di sforzo, un’amplificazione della sensorialità, che permette al corpo di viaggiare libero nello spazio e di farsi esso stesso spazio. È poi il turno dello sguardo, che può indirizzarsi verso due poli opposti: con o contro il movimento. I danzatori devono proiettare lo sguardo fuori da loro stessi, dando forma allo spazio che attraversano e prendendo consapevolezza di come la direzione degli occhi possa modificare il movimento, aprendo nuove porte all’improvvisazione.

Giunti a questa necessaria compenetrazione tra corpo e spazio, ci si rende conto dell’impossibilità della stasi totale: anche azzerando il movimento, i corpi vivono, si muovono, diventano parte dell’aria che riempie la sala, perché «non c’è fine al movimento, si trova sempre una scusa per continuare e non si è mai fermi, nemmeno quando si azzera», sottolinea Bianco. Ciò a cui si assiste è un progressivo e lento abbandono del corpo al movimento, un sereno lasciarsi accadere perché intrisi di un’energia più grande dell’individuo nella sua singolarità. Ma Bianco va oltre questa prima tappa del lavoro e chiede ai danzatori di usare come centro del proprio movimento quelle parti del corpo che odiano o che non usano.

Ecco allora che la ricerca si fa esperienza del fallimento, della caduta, dell’assenza di giudizio. La dimensione performativa cede il passo all’immediatezza e alla semplicità: a interessare non è la bellezza di un’immagine o la precisione di un gesto, ma il processo che porta da un’immagine all’altra, in una parola: i vuoti. È nel vuoto che il danzatore fa esperienza della piena consapevolezza del movimento. L’ultima fase di questa ricerca prende forma nella richiesta di lavorare sulle mezze punte, fermandosi in equilibri imprevedibili. È proprio in quest’ultima esperienza che danza e vita si compenetrano, mostrando chiaramente l’equilibrio insito nei corpi in costante caduta.

Agnese Di Girolamo

Photo © Giovanni Barbato


Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico MILANoLTREview