«A body that dances is the body we are looking for», così David Raymond e Tiffany Tregarthen rispondono, davanti alla giovane platea di studenti del liceo oreutico Tito Livio, alla domanda «come dev’essere il vostro danzatore ideale?». I due coreografi canadesi, cofondatori della compagnia Out Innerspace Dance Theatre, collaborano da quando hanno condiviso una residenza artistica in Belgio, ad Anversa, tra il 2005 e il 2007. Lì hanno consolidato il metodo che ora propongono ai loro danzatori e agli allievi, ovvero una creatività basata sulla ricerca costante di nuovi rapporti con l’altro e con lo spazio, sia interiore sia esteriore. L’obiettivo finale è mettere alla prova le estetiche coreografiche tradizionali e i confini tra ciò che è reale e ciò che non lo è. Lo stesso nome della compagnia, Out Innerspace, riunisce in sé la dialettica tra interno ed esterno, richiamando anche a quello che in italiano chiamiamo “spazio profondo”, ovvero quella dimensione cosmica insondabile in cui far accadere tutto ciò che si immagina fuori dalla realtà.

Per trasmettere questi concetti i due artisti propongono agli studenti una masterclass basata su diversi esercizi di improvvisazione, strumento attraverso il quale, spiegano, nascono anche la maggior parte dei frammenti coreografici dei lavori della compagnia. Tutto parte da terra, dal percepire il peso della gravità come primo partner con cui danzare, per poi evolvere in una serie di cambi di prospettive, ritmi e direzioni da dare al movimento. Le indicazioni sono quelle di essere coscienti delle connessioni tra le parti del corpo, di portare in luoghi mentali diversi la propria danza, di giocare con i cambiamenti di energia. Tregarthen e Raymond incoraggiano le riflessioni dei partecipanti alla fine di ogni esercizio: li spingono a porsi domande, a comprendere se il loro corpo si muova con un intento estetico o istintivo, a evidenziare la differenza tra improvvisazione direzionata verso la ricerca e improvvisazione basata su schemi di movimento consueti. Quando la differenza linguistica tra i coreografi e il pubblico si complica entra in gioco la comprensione fisica. Del resto, si sente dire, «in choreography more languages is always better than less languages». Alla fine della masterclass Tregarthen e Raymond fanno notare ai partecipanti che non fa parte della natura umana voler cadere, ma i danzatori che improvvisano lo fanno di continuo: è per dimostrare al pubblico che la fine di ogni movimento, anche quando sembra che si sia perso il controllo, è soltanto l’inizio del successivo. 

Anna Farina


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