Ore 13.45
I giovani danzatori affollano la Sala 3 della DanceHaus di Milano. Si cambiano, chiacchierano, scaldano i muscoli. Chi in piedi, chi seduto, chi si allunga in una spaccata. In tutti l’entusiasmo genera una comune atmosfera di attesa e di eccitazione contenuta.
Ore 14.00
La porticina bianca si apre e l’ingresso di Tale Doven, ballerina della compagnia Rosas di Anne Teresa De Keersmaeker, è accompagnato dal calare improvviso del silenzio: la masterclass ha inizio.
Si comincia subito con la coreografia, una sequenza di Drumming (creato dalla compagnia nel 1998).
I ragazzi sperimentano un corpo nuovo, lineare, in continua tensione verso un equilibrio che, appena raggiunto, cade in disequilibrio: così si genera il movimento, geometrico e seriale.
La difficoltà di “spogliare” il proprio corpo è maggiore rispetto allo sforzo di adornarlo; una limpida semplicità è più rara e meno banale di un’esuberante baroccaggine. E questo Tale Doven lo sa bene: consiglia di contenere e controllare l’energia, di non aggiungere un’espressività superflua.
Il tempo passa e i danzatori si appropriano sempre più di questo meccanismo: i loro corpi sono linee in continua ricomposizione, ricordano quasi i caleidoscopi. Ora si guardano, concepiscono il proprio movimento in relazione a quello del gruppo, fino ad arrivare alla sincronia, pur nello sfasamento temporale della stessa sequenza.
Ore 16.00
Il meccanismo ormai è innescato. I gesti vengono ripetuti uguali a velocità diverse, meccanicamente. A guardarli, si produce una sensazione quasi ipnotica: lo sguardo ne è totalmente attratto e fatica ad individuare un inizio e una fine. Sembra di essere di fronte ad una macchina umana in azione dall’eternità, nella quale ogni ingranaggio acquisisce un valore solo se messo in relazione con gli altri, nell’intero corpo di ballo.
Ore 16.30
La porticina bianca si richiude. I danzatori si guardano: qualcosa di grande è accaduto nei loro corpi.
Miriam Gaudio
Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico MilanOltreView