nell’ambito del VLVIII ciclo di rappresentazioni classiche a Siracusa _ 11 Maggio-30 Giugno 2012
a cura di INDA (Istituto Nazionale del Dramma Antico)

A raccogliere la sfida della commedia, nel ciclo di rappresentazioni classiche ancora in corso a Siracusa, è stata Roberta Torre: regista di cinema, milanese di nascita e siciliana di adozione. A renderla famosa è stato un musical surreale sulla mafia ambientato a Palermo (Tano da morire, 1997) a cui sono seguiti, tra gli altri lungometraggi, Angela (2001) e Mare nero (2006) con Luigi Lo Cascio.
Gli Uccelli sono quanto di più lontano dalle paludate messinscene di maniera che troppo spesso associamo alla commedia antica: Roberta Torre si sporca coraggiosamente le mani e recupera senza reticenze tutta la comicità di Aristofane, a partire dalla più bassa, elementare, triviale. Anche la vis politica viene restituita con decisione: tra le maglie del testo (scorciato e cambiato, laddove serviva) si infiltrano elementi decisamente contemporanei, nati dal lavoro sul palco. Così, tra poeti e sacerdoti, può spuntare una consigliera regionale, e l’ambasceria inviata da Zeus può urlare “Donne! È arrivato l’arrotino!”.
Il rapporto con il pubblico, ingrediente basilare e troppo spesso sottovalutato della commedia, viene riscoperto: gli uccelli arrivano sul palco dopo una lunga passeggiata tra gli spettatori, che vengono toccati e spettinati. La platea, come nella vecchia Atene, risponde a più livelli: qualcuno ride fragorosamente alle battute più volgari, qualcuno apprezza i richiami colti (dal Settecento a Pasolini). Qualcun altro segue con il testo a fronte e si lamenta – ci racconta la Torre – perché qualche passo manca all’appello.

Com’è stato l’incontro con Aristofane?

“La sensazione è stata quella di grande agilità: si riconosce subito un genio dalla sua capacità di travalicare i secoli. Poi ho avuto la fortuna di lavorare fianco a fianco con Alessandro Grilli: un traduttore competente, ineccepibile ma disponibile e creativo. Ho avvertito da subito la necessità di far emergere con forza l’attualità del testo e lui ci ha aiutato molto in questo percorso. Durante il lavoro sul palco, con gli attori, abbiamo poi inserito nella drammaturgia elementi completamente nuovi: quando si lavora con Aristofane, la contemporaneità bussa alla porta e chiede di entrare. Il teatro di Siracusa è un luogo imponente, che mette pressione. È uno spazio che non permette errori: tutto è perfettamente visibile, non si può nascondere nulla, ogni voce e ogni movimento sono perfettamente percepibili. Ma non mi sono fatta bloccare: ho sentito che non era utile cercare di riportare alla luce una grecità statica, monolitica, cristallizzata”.

In che modo il luogo ha influenzato il lavoro?

“Da un lato mi sono trovata agevolata: per il cinema sono abituata a lavorare in spazi aperti, grandi, con luci naturali. La struttura elaborata da Rem Koohlaas, poi, è piena di potenzialità. La scalinata – con i suoi corridoi laterali –  permette di lavorare su più livelli. Questo ha delle conseguenze interessanti anche dal punto di vista acustico. Il teatro di Siracusa è fatto per le voci umane nude, pulite: l’amplificazione (oggi inevitabile per l’inquinamento sonoro) provoca appiattimento, uniformità di suono. L’uso della scalinata crea invece una direzionalità: quando Io scende dalla scalinata, il pubblico d’improvviso percepisce una voce che proviene da altrove.
Per un regista è un brivido vedere un proprio lavoro rappresentato in quel luogo, davanti a un così gran numero di spettatori. C’è magia in quel pubblico: sono persone che decidono di accostarsi a un teatro lontanissimo da loro. È poi un uditorio molto eterogeneo, che va dall’alto al basso, sia in senso metaforico che spaziale”.

Molti elementi – le musiche, i costumi, le parrucche – sembrano rimandare al Settecento. Come mai la scelta di un periodo storico così distante dall’originale?

“Mi sono orientata subito sul Settecento, per istinto. Mi sembrava un momento capace di far emergere quello che è un nodo fondamentale degli Uccelli: la lotta per il potere. Aristofane racconta un meccanismo universale: chi riesce ad ottenere il potere – scalzandone uno precedente – immediatamente ne ricrea le dinamiche. Appena prende il comando, Pisetero diventa un tiranno. È un tiranno che attira le simpatie del pubblico e persino dei tiranneggiati: gli uccelli sono disposti a farsi arrostire per compiacerlo. Ma resta un tiranno.
Mi interessava dare rilevanza a questo aspetto, comico e amaro allo stesso tempo: ecco perché ho pensato subito al mondo della corte settecentesca. Così abbiamo lavorato sul minuetto, sulla gavotta, sul rondò: uno di questi è nato come una ripresa di un motivo di Uccellacci e uccellini. L’abbiamo recuperato e trasformato in un rondò: omaggio a Pasolini e a un film che è punto di riferimento per chiunque prenda in mano questa commedia.
Solo in un secondo momento, con sorpresa, ho scoperto che il Settecento è stato un periodo di grande rivalutazione di Aristofane e che il vaudeville è nato proprio in quel contesto. Allora ho capito che la mia intuizione era indovinata”.

Come far emergere la contemporaneità di un testo così lontano?

“Se si è disposti a entrare nell’ottica che Aristofane parla di noi, e che all’interno del testo c’è anche una comicità bassa ed elementare, le cose vengono da sole. Volevo che lo spettacolo fosse una vera e propria festa, da condividere con il pubblico: il finale, con il matrimonio tra il protagonista e Regina, è drammaturgicamente un po’ bislacco. Lo si comprende solo se lo si guarda come un gioioso rito collettivo.
Non volevo che il pubblico avvertisse una distanza nei confronti degli attori o del testo. Così ho mantenuto tutto quello che era capace di parlare ancora e ho tagliato quello che non lo faceva più. Nella seconda parte, per esempio, arrivano nella città una serie di disturbatori: lo schema è per sketch, quasi da cabaret. Alcuni di questi personaggi oggi non ci dicono più niente, come il sicofante, o il parricida. Altri sembrano scritti ieri, come il poeta: chi pratica arte oggi deve arrabattarsi, cercare di ottenere qualche incarico per sbarcare il lunario. Così il poeta nello spettacolo è munito di aspirapolvere: che debba fare le pulizie per mantenersi mi pare un perfetto specchio dei tempi. Quanto al personaggio dell’ispettore, l’idea di trasformarlo in una consigliera regionale in vestito sexy è venuta quasi da sola: Aristofane parla nelle indecenze della sua città. Quella consigliera parla delle nostre”.

Come starebbe Aristofane sul grande schermo?

“Benissimo! Lavorandoci mi è venuta una gran voglia di pensare a un film: sarebbe incredibilmente attuale. Ma ho come la sensazione che i produttori non ne sarebbero entusiasti”.

Maddalena Giovannelli