Con passo lento e sguardo devoto sette uomini in abito nero procedono sorreggendo un corpo di donna completamente nudo e inerte, mentre sullo sfondo 1600 reggiseni cuciti assieme pendono dal soffitto. Così fa il suo ingresso in scena la figura di sant’Agata: la processione in suo onore può avere inizio. Tutta la sala si ritrova completamente immersa nella profonda spiritualità evocata dalla presenza femminile e dall’ossequiosità con cui coloro che guidano la processione toccano e spostano il corpo. Il fulcro del lavoro firmato da Roberto Zappalà sembra infatti legato al contatto fisico con questo corpo santo, centro di ogni spostamento. Le membra della martire non devono mai toccare terra: sono proprio i fedeli con le tuniche nere a impedirlo, frapponendosi sempre tra i suoi piedi e il pavimento. Mentre il gruppo continua a seguire un invisibile percorso tracciato per il rito, due fedeli si allontanano dando vita ad una danza che, allo stesso tempo, è anche uno scontro: i movimenti richiamano quelli di una lotta selvaggia, bestiale. Un conflitto di breve durata e i due contendenti, non appena gli animi si placano, tornano a ingrossare le fila della processione, facendosi dare il cambio da altre coppie, pronte a un nuovo, rapidissimo, scontro.

Poi, all’improvviso, le luci e la musica dal vivo eseguita dai Lautari immergono il pubblico in una dimensione psichedelica, quasi infernale: il ritmo subisce un’accelerazione potente e uno degli uomini coinvolti nella processione si allontana e si isola a lato del palco, arrampicandosi su una corda pendente dal soffitto. Dichiara apertamente, con marcato accento siciliano, l’ingerenza della mafia nelle celebrazioni della festività di sant’Agata urlando: «La città è nostra!». È  allora che il punto interrogativo nel titolo del lavoro si fa sentire in tutta la sua ambiguità: siamo sicuri che tutti coloro che si occupano di questa meravigliosa festività catanese lo fanno con intento puro e religioso? Oppure questa è solo uno strumento per arricchirsi grazie ad attività illecite? Roberto Zappalà stesso, a fine spettacolo, parla chiaramente al pubblico: entra in scena e legge dati concreti riguardanti il coinvolgimento della mafia nell’organizzazione del rito e i relativi processi giuridici finiti spesso con l’assoluzione degli imputati. Vuole ricordarci come non si possa parlare di “festa”, “incontro con l’altro” e “spiritualità” se tutto questo viene offuscato dal denaro, dall’omertà, dalle leggi che regolano il guadagno.

Alice Strazzi


ph: Giuseppe Distefano

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