Short Theatre compie dieci anni e festeggia interrogandosi sul possibile futuro del teatro italiano.
Nostalgia del Futuro, titolo di questa edizione, è anche il fil rouge che accompagna gli spettacoli proposti dal 3 a al 13 settembre nelle sale della Pelanda, ex mattatoio oggi parte del Museo Macro Testaccio e sede del festival (alcuni eventi si svolgono invece al teatro India).
Il festival si è sempre presentato come un’anteprima della stagione romana, capace di far aprire gli occhi alla capitale sulle novità del teatro contemporaneo nostrano e internazionale: artisti stranieri che raramente hanno calcato i palcoscenici del belpaese sono invece stati ospiti della kermesse romana. Oggi, all’alba dei dieci anni, Short Theatre è ancora un vivo promotore di un teatro nuovo, tra biglietti sold out, qualche replica straordinaria (l’acclamato MDSLX dei Motus), e un pubblico denso di addetti ai lavori.

Una serie di collaborazioni ha arricchito negli ultimi anni il panorama del festival. Tra queste, Fabulamundi. Playwriting Europe, un progetto europeo che promuove – attraverso una rete tra Italia, Francia, Germania, Spagna e Romania – la drammaturgia contemporanea e che quest’anno indaga il tema dello scambio generazionale.  Tra gli spettacoli proposti alla Pelanda, Confessione scritto da Davide Carnevali e interpretato dal brillante Michele Di Mauro (qui la recensione di Stratagemmi), il francese Guance Rosse di Sandrine Roche e dalla Romania invece Io se voglio fischiare, fischio di Andreea Valean.
Un ulteriore spazio è stato lasciato ai vincitori di Premio Scenario 2015 (nella versione da venti minuti) nella medesima prospettiva di valorizzazione del nuovo: Angela Demattè con Mad in Europe, Caroline Baglioni vincitrice del Premio Ustica con Gianni, e le menzioni speciali Pisci ‘e paranza di Mario de Masi e Homologia dei Dispensabarzotti.

Non sono mancati gli ospiti internazionali di prestigio, come gli spagnoli Agrupación Señor Serrano, appena vincitori del Leone d’Argento alla Biennale Teatro 2015, e il collettivo tedesco She She Pop.
Uno degli appuntamenti  più rilevanti del programma è stato il loro The Rite of Spring (in scena il 4 e il 5 di settembre), ottimo esempio del modus operandi del gruppo, che dagli anni Novanta usa il palcoscenico come mezzo di sperimentazione, luogo di dialogo e di confronto, laboratorio di nuovi sistemi di comunicazione per la collettività (su Stratagemmi ne abbiamo parlato in occasione della recente replica nell’Atene della crisi). Dopo una intensa rilettura di Re Lear – che portava al diretto confronto con i padri, presenti sul palcoscenico (in cartellone alle Colline Torinesi) – qui il dialogo è con le madri, proiezioni virtuali su maxi schermi.
L’opera di Stravinsky è il punto di partenza per un dibattito scenico (quando non una lotta) tra madre e figlia, che pone al centro il concetto di sacrificio. È un sacrificio essere madre? Cosa vuol dire esserlo? Il nodo non può essere sciolto, naturalmente. Ma la digitalizzazione del corpo delle donne, rese quasi grottesche dalla grandezza della proiezione e dai movimenti che sono chiamate a compiere, assume connotati empirei, rendendone aurea la presenza, uno spirito che accompagna perennemente il percorso dei figli, anche in assenza.
“Bisogna dire che con tutti i sensi è stato qualcosa di straordinario”, è la frase che conclude lo spettacolo. Una pacificazione? E se si, a che prezzo?
Quanto abbiamo sacrificato del nostro futuro?

Giulia Alonzo