C’è un’età più inafferrabile dell’adolescenza, un linguaggio più irrappresentabile di quello che parlano gli adolescenti?
Elise Wilk (classe 1981) cerca di afferrare quell’età e rappresentare quel linguaggio portandoci in una città di provincia fatta di «palazzoni, palazzoni, palazzoni», i cui abitanti è come se fossero svaniti nel grigiore architettonico. I personaggi sono tre ragazzi e tre ragazze intorno ai quindici anni, non c’è nessun adulto, nessun insegnante, nessun genitore. I luoghi sono quelli di una scuola qualunque: il campo da basket, i bagni, un cassonetto della spazzatura. Oltre questo orizzonte poco altro. Il tempo è il nostro presente.

La struttura di Aeroplani di carta (Avioane de hârtie) è semplice: quattro parti, le stagioni di un anno scolastico, suddivise in scene di vita quotidiana dei sei protagonisti. A queste scene di socialità si alternano i loro monologhi: frammenti di ricordi, pensieri, sogni che si sovrappongono come tante confessioni allo spettatore e che consentono di rileggere con occhi nuovi la loro quotidianità. È grazie a questi spiragli sull’interiorità dei personaggi che il testo si smarca da una trita narrazione sul bullismo, l’emarginazione e le frustrazioni di una scuola di provincia. In questi monologhi emerge l’altra metà della vita degli scolari e scopriamo che la provincia di cui si parla è quella rumena, mentre il centro, la meta verso cui si proiettano i loro sogni e le loro paure, è l’Italia.

Aeroplani di carta nella versione diretta da Fiorenza Pieri in scena al Teatro Modena di Sampierdarena (GE)

L’autrice, originaria di Brașov e vincitrice con questo testo del Romanian Drama Prize 2015, riesce a raccontare l’emigrazione rumena verso il nostro paese senza mostrare alcun lavoratore, viaggio, corriera o telefonata, ma focalizzando l’intero spettacolo solo sulle ripercussioni che questo fenomeno ha sul microcosmo adolescenziale.
I drammi scolastici dei sei protagonisti non sfociano mai nello scandalo estremo a cui ci hanno abituato certe rappresentazioni del caos giovanile. Le violenze dei bulli Alex e Bobo contro l’emarginato Miki raggiungono l’apice quando lo costringono a mangiare un panino ripieno di crema Nivea, la timida Andra entra in crisi perché i compagni leggono pubblicamente il suo diario segreto, il prezzario che Lena propone ai ragazzi suona quasi candido («10 lei bacio sulla bocca, 20 lei con la lingua, 25 mi tolgo il reggiseno»). Niente, insomma, se lo paragoniamo alle efferatezze di Edward Bond o Sarah Kane. Sullo sfondo aleggia lo spettro della morte di Teddy, un loro compagno suicida, («Quando qualcuno muore è come se andasse in Italia, solo che non ci puoi parlare su Skype») a ricordarci che il vero orrore non è in scena. È fuori dai giochi di potere scolastici, è nei palazzoni a cui i ragazzi fanno ritorno dopo le lezioni, negli appartamenti dove sono vittime di dinamiche che non comprendono e che possono soltanto subire.

Ognuno dei personaggi è lo strascico di una famiglia spezzata, una parte della quale è lontana, in Italia, se va bene, o in qualche altro posto da cui non si torna indietro. Ognuno cerca di ricomporre  la mancanza come può. I rapporti di amore e di amicizia vissuti a scuola sono la scia inquinata di ciò che succede in casa. L’aeroplano che Lena si tatua sulla schiena e quello di carta che le dona Miki sono il simbolo fin troppo ingenuo del desiderio di evasione che domina la vita dei sei ragazzi. A Laura, infine, i genitori regaleranno un viaggio per la Spagna, ma resta il dubbio che non tornerà, come se la Romania fosse un brutto sogno da dimenticare. Solo nelle battute conclusive di Miki sembra aprirsi uno scenario estremo: si affaccia la possibilità che, proprio dentro la scuola, la frustrazione e il dolore a lungo covati sfocino nel sangue. Il titolo della penultima scena, Andrà tutto bene, prende i toni di uno slogan sarcastico.


Da Aeroplani di carta

ANDRA: (legge da un quaderno) In Italia è tutto bellissimo. Gli italiani sono gente sveglissima. Sono loro che hanno inventato la pizza. Per avere il permesso di fare la pizza, tutte le pizzerie del mondo devono versare all’Italia una parte dei soldi che guadagnano. Tutti i soldi che arrivano in Italia sono divisi tra tutti gli italiani, e quindi tutti gli italiani sono ricchi grazie alla pizza. E siccome sono tutti ricchi, non lavora più nessuno. E visto che qualcuno però deve lavorare, gli italiani hanno chiamato i rumeni.

MIKI: La mamma guarda in tivù una trasmissione con dei bambini che suonano. Guarda che bravi, questi bambini, perché non li guardi un po’ anche tu? Io vado in camera e spremo due tubetti di Attak nei tasti del piano per non suonarlo mai più. Il signore del poster mi fa l’occhiolino.

LAURA: Quando mi hanno detto che sarebbero partiti, ero contenta. Contavo i giorni. Ogni giorno facevo una crocetta su un quadratino del quaderno di mate. Quando ho riempito cinque righe, sono partiti.

LENA: Dopo che la mamma è andata via sono dovuta andare a vivere da mia sorella e il suo ragazzo. Sul soffitto della nuova camera ho incollato papà-giraffa, sorella-giraffa e io-giraffa. Mamma l’ho ritagliata da tutte le foto. E le ho fatto la faccia a pezzettini piccoli piccoli e li ho buttati dalla finestra.

BOBO: Un giorno, quando sono arrivato a casa da scuola, la nonna era seduta in poltrona nel soggiorno e guardava il soffitto. Che succede?, le ho chiesto. Guarda lì, sul lampadario! Non li vedi? Ci sono degli omini col cappello! Non li vedi? Gli ho detto di scendere ma non vogliono. Diglielo anche tu! Le ho detto che sul lampadario non c’era nessuno.

ALEX: La luce della cucina restava accesa tutta la notte. La mamma sedeva al tavolo e guardava nel vuoto. Ogni notte la stessa storia. Per una settimana intera. Poi se n’è andata anche lei. Mio fratello è ancora convinto che tornerà.

MIKI: Quando sono andato a stare dai miei zii ho preso con me il poster. L’ho attaccato sopra il letto. Credi che la mamma tornerà?, ho chiesto al signore del poster la prima sera. Non penso, ha risposto. Se n’è andata perché hai rovinato il piano e perché non hai talento e non andrai mai in televisione.

LAURA: Da quando sono partiti, ho fatto ogni giorno una crocetta su un quadratino del quaderno di mate. Ho già riempito due pagine e mezzo.

ANDRA: Molti genitori sono andati a lavorare in Italia. Se nel mondo nessuno mangiasse più la pizza, in Italia non arriverebbe più un soldo e tutti gli italiani sarebbero poveri. Allora dovrebbero tornare a lavorare e manderebbero via i rumeni, che potrebbero tornare al loro paese. Io non mangio più la pizza perché voglio che tutti i genitori tornino a casa e perché la pizza ha 1200 calorie e fa ingrassare. Andra, 14 anni, prima B.


Torniamo alla domanda iniziale. Come si può rappresentare l’adolescenza, l’età più conformista e insieme più sregolata, più dogmatica e insieme più incoerente? E soprattutto come si può scrivere il linguaggio dell’adolescenza, che è effimero più di ogni altro, che è fatto di dialetti ed esotismi, di invenzioni e storpiature, di gerghi che sono già vecchi l’estate successiva? Il testo di Wilk, avendo solo personaggi adolescenti, deve per forza affrontare questa impresa. Lena, Miki, Laura, Alex, Bobo e Andra parlano prevalentemente in maniera impeccabile, ci sono alcune espressioni infantili, ci sono alcuni cenni gergali e ci sono inevitabilmente punti che fanno storcere il naso («Che combini, frate?» o «Con ‘sta roba addosso è ovvio che non ti fila nessuno! Ever!»), ma per noi lettori è difficile giudicare, sia perché ci è impossibile sollevare il velo della traduzione, sia perché la lingua che si confa alla propria idea di adolescenza è sempre in fondo un ideale fissato da qualche parte nel tempo, che suona artefatto e goffo a chiunque abbia vissuto altri tempi e altre scuole. Si potrebbe rilanciare dicendo che ogni linguaggio, una volta inserito in una drammaturgia, si cristallizza e, in un certo senso, muore, ma non si può negare che questo timore risulti amplificato quando si parla del linguaggio adolescenziale, che è per sua natura settario e fugace.

Questo problema di rappresentabilità si complica ulteriormente quando immaginiamo una messa in scena, cioè quando oltre a leggere le parole degli adolescenti, le pensiamo recitate su un palcoscenico. Chi potrebbe interpretare un adolescente rumeno? Logorati da certi spettacoli in cui neo-ventenni (quando va bene) interpretano sedicenni, ignorando l’abisso che separa quei pochi anni di distanza, dobbiamo domandarci come il teatro – cinema e serie tv meriterebbero un discorso a sé – può mettere l’adolescenza in scena senza farla sembrare un quadretto stereotipato dipinto da un adulto che si tiene in equilibrio tra il rimbrotto paternalista, la nostalgia della spensieratezza, lo scandalo erotico e la violenza gratuita. Questa questione, che è una questione registica, emerge dalla lettura di Wilk non come un vezzo da addetti ai lavori, ma come un’ottima possibilità di riflessione sul rapporto testo-spettacolo e drammaturgia-lettore: ogni lettore di drammaturgie dev’essere a suo modo regista di quelle drammaturgie e affrontare il tema della loro rappresentabilità.

Avioane de hârtie nella versione di Eugen Gyemant in scena al UNATC di Bucarest in occasione del Festivalul Internațional al Școlilor de Teatru 

Forse ogni testo che pretenda di parlare il linguaggio dell’adolescenza dovrebbe essere tradito e plasmato dall’adolescente che lo interpreterà; o forse occorrerebbe abbandonare del tutto la pretesa di realismo – che tuttavia dal punto di vista linguistico Aeroplani di carta sembra avere – e farlo recitare a degli anziani, o a dei bambini, o a dei genitori; o forse bisognerebbe portare sul palco dei veri adolescenti rumeni che hanno vissuto quella periferia… Le possibilità che si aprono al lettore-regista sono tante. Quello che di sicuro Aeroplani di carta ci permette di fare è leggere, dimenticare una sua possibile resa teatrale italiana e costruire il nostro teatro mentale e di conseguenza la nostra adolescenza mentale, con i suoi nomignoli, le sue offese, i suoi sfottò, le sue canzoncine, i suoi motti, i suoi neologismi, le sue imprecazioni. Se così facciamo, se ci liberiamo dell’immagine di un teatro che goffamente cerca di portare realisticamente sul palco l’irrappresentabile, possiamo vivere questo testo come un doppio colpo al cuore: un racconto di come noi italiani siamo il centro di una periferia spezzata e un ricordo di come siamo stati e come ci siamo espressi durante quel tempo oscuro e confuso che è stata la nostra adolescenza.

Jacopo Giacomoni


Il testo, grazie al progetto Fabulamundi, può essere richiesto gratuitamente con una mail a [email protected]