Nel silenzio onirico del deserto, attraversato da sottili raffiche di vento e dall’eco lontana di alcune voci, due giovani sorelle afghane si incontrano di nuovo, dopo anni, libere dalla minaccia talebana che ha finalmente abbandonato la città. Sono a un passo dalla realizzazione dei loro sogni: stanno per fuggire in Inghilterra, terra promessa di libertà personali e ambizioni professionali. Le due si rincorrono, si abbracciano, litigano, si riappacificano in una coreografia dalla precisione circense, giocosa e tuttavia venata da un’inquietudine di cui non riusciamo a cogliere la natura. Qualcosa di tragico e illogico è infatti in sospeso.
È con questo quadro narrativo, firmato da Naomi Wallace (vedi alla voce Come se quel freddo) che si chiude Afghanistan: enduring freedom. Il secondo capitolo del dittico ideato da Bruni/De Capitani sceglie – come già avveniva nel precedente Il Grande Gioco, qui la nostra recensione – di raccontare i complessi rapporti tra Medio Oriente e Occidente attraverso cinque pièce di altrettanti autori anglo-americani.
In ordine di rappresentazione: Il Leone di Kabul di Colin Teevan, che si sviluppa intorno al difficoltoso dialogo fra un mullah talebano e una temeraria operatrice ONU; Miele di Ben Ockert, che racconta la storia del comandante Massud, ultimo leader sognatore di un Afghanistan autonomo e libero; Dalla parte degli Angeli di Richard Bean che prende vita all’interno di un attico newyorkese dove è in corso la valutazione per lo stanziamento di alcuni fondi umanitari; e Volta Stellata di Simon Stephens, penultima pièce dello spettacolo prima della Wallace, che fa luce sulla vita di un giovane soldato americano impegnato a fronteggiare lo spettro del disturbo da stress post-traumatico. Cinque quadri di un “affresco parlato” che fotografa un momento storico e politico preciso, attraversando il ventennio che dall’inizio degli anni novanta del secolo scorso va alla fine degli anni zero del Duemila.
E benché i segmenti drammaturgici siano narrativamente indipendenti, ad accomunarli è una nota formale condivisa: una scenografia, dalla resa quasi fiabesca, fortemente connotata da elementi che richiamano il Medio Oriente e il “war cinema” americano post guerra fredda.
Questo utilizzo dell’immaginario comune si fa allora elemento costitutivo della messa in scena di Bruni/De Capitani, supportando la narrazione e fornendo allo spettatore, a tratti legittimamente disorientato dalla mole e dalla complessità dei riferimenti, un appiglio visivo utile per contestualizzare.
Ad avallo della loro natura di immagini, il movimento nelle cinque pièce di Enduring Freedom è ridotto al minimo. La parola diventa perciò fondamentale nello sviluppo della narrazione, che procede principalmente attraverso due canali: il dialogo fra i personaggi e l’intervento di un narratore eterodiegetico che, in voice-over, attraverso un video dal taglio documentaristico, introduce e inquadra ciascuna pièce. Ma oltre che mezzo, la parola si fa anche tema, declinato in diverse sfaccettature: la parola è inascoltata, se pronunciata da una donna; è ricatto, violenza e negoziazione, è rispetto negato o concesso.
Il racconto preciso che se ne ricava, quasi didattico nella sua limpidezza, fa luce su alcuni temi chiave per l’analisi non solo del nostro oggi ma della società in generale: la concezione di individuo come singolo o come parte di un gruppo sociale, l’importanza del diritto, l’idea che le culture non siano tutte uguali e che una decisione può apparire più o meno grave a seconda del filtro attraverso il quale la si guarda.
Questioni cardine che, a sipario chiuso, fanno immaginare per Enduring Freedom una possibilità oltre ai confini del palcoscenico: una messa in scena ancora più immersiva, dove lo spettatore è accolto a 360° e invitato, nel ruolo di silenzioso osservatore, a scegliere lui stesso quali frammenti della storia seguire. Chissà che un terzo capitolo non possa andare in questa direzione.
Emanuela Gussoni
Afghanistan: Enduring Freedom
di Richard Bean, Ben Ockrent, Simon Stephens, Colin Teevan, Naomi Wallace
traduzione Lucio De Capitani
regia di Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani
scene e costumi Carlo Sala
video Francesco Frongia
luci Nando Frigerio
suono Giuseppe Marzoli
con Claudia Coli, Michele Costabile, Enzo Curcurù, Alessandro Lussiana, Fabrizio Matteini, Michele Radice, Emilia Scarpati Fanetti, Massimo Somaglino, Hossein Taheri, Giulia Viana