Come si possono intercettare bisogni e mancanze di un territorio? Come entrare in ascolto e in dialogo con una comunità, con gli attori che compongono l’architettura sociale di uno spazio?
L’arte è fondamentale nella vita comunitaria, ma quali sono le difficoltà nel far sentire necessario un progetto artistico? E come farlo durare nel tempo?

Queste sono alcune delle domande emerse nella prima giornata del convegno Dal Capitale Relazionale al Bene Comune, tenutosi a Trescore Balenario il 5 e il 6 ottobre.
Trescore è il centro più esteso della bassa Val Cavallina, un piccolo paese in Provincia di Bergamo con poco meno di diecimila abitanti. A Trescore ci sono le terme, la Chiesa parrocchiale, una torre del tredicesimo secolo che dà il nome alla piazza – con al centro una fontana illuminata da neon fucsia –, una rinomata pasticceria, qualche ristorante. A Trescore c’è anche la Cappella Suardi, affrescata negli anni venti del Cinquecento dal veneziano Lorenzo Lotto, un gioiello privato all’interno del parco della villa della famiglia Suardi. E questo piccolo centro fa parte di quel territorio diffuso in cui opera l’Associazione Qui e Ora Residenza Teatrale, trasferitasi da Milano nella bergamasca per intessere relazioni, creare reti condivise tra cittadini, artisti, amministratori, e per Coltivare Cultura– progetto nato nel 2012 – dove c’è un bisogno, anche inespresso.
Qui e Ora per il suo decimo compleanno ha voluto partire da un territorio specifico, in cui radunare operatori culturali, assessori, cittadini, artisti, architetti, sindaci, docenti provenienti da tutta Italia nella convinzione che condividere del tempo sia necessario per focalizzare i punti deboli e le opportunità di una comunità particolare, certo, ma anche comune e universale.

Tra criticità sociali e culturali

Per poter agire concretamente in uno spazio pubblico, che sia esteso, fluido o ristretto, è necessario guardare oltre se stessi, le proprie – più o meno virtuose – pratiche, e confrontarsi. La comunità della cultura lo sa bene, ma non sempre ha il coraggio di affrontare le criticità in cui è immersa: la tentazione è quella di restringere il campo. Si ha così l’impressione di poter agire meglio, perché il rischio opposto sarebbe la dispersione. Al tempo stesso in questo modo si finisce per parlare a se stessi, senza accogliere punti di vista differenti, senza aprirsi a ciò che ci circonda.
Le criticità in ambito di progettazione culturale sono innumerevoli, senza dubbio: la realtà dei progetti deve rispondere al cronometro della giunta di riferimento – o vedersi approvare solo “per tradizione”; bisogna fronteggiare l’individualismo degli operatori, a tratti protezionisti; accettare la mancanza di fondi e la richiesta di realizzare prodotti, di farsi centri di produzione culturale. Solo per citarne alcune.

La realtà dei nostri territori seppur non primariamente culturale, è ugualmente problematica, tra gentrificazione, comunità sempre più sradicate, escluse, private di spazi realmente pubblici e del tempo per viverli. E senza fiducia nel futuro, in una progettualità condivisa, nella possibilità di cambiare il panorama che la circonda. Soprattutto, senza nemmeno più riconoscerne il desiderio.
Ed è proprio sul desiderio che è necessario lavorare.

Il desiderio mancante

A Skoghall, città svedese di cartiere, non c’era mai stato un museo. Se a Skoghall i cittadini vivono tra la fabbrica e casa, costruita dalla fabbrica stessa, Alfredo Jaar, chiamato per un progetto artistico per la comunità, fatica a muoversi. Se a Skoghall non ci fosse stato un sindaco tanto insistente da richiamare l’artista, i cittadini non avrebbero affollato e poi visto bruciare il loro museo, costruito il giorno prima: il progetto di Jaar era infatti quello di costruire un museo di carta e di bruciarlo 24 ore dopo, per far riflettere l’opinione pubblica di un paese totalmente privo di spazi di aggregazione culturale.

È l’artista e architetto Maurizio Cilli a raccontare la storia di The Skoghall Konsthallee a insistere su quanto sia fondamentale percepire un desiderio sopito in una comunità. In alcuni luoghi vi è necessità endemica di cultura, come a Skoghall, ma finché non si “vede” qualcosa non se ne si sente un vero bisogno, non ci si pensa nemmeno perché non fa parte del linguaggio quotidiano.
Ricreare e intercettare un desiderio in una comunità, fatta di spazi – materiali e immateriali – condivisi, permette di accompagnare un territorio in un percorso, senza imporre dall’alto eventi privi di radici, disconnessi dai reali bisogni del luogo. Per farlo fattore fondamentale è il tempo, sempre più prezioso in una società che fa della velocità il suo plusvalore.

Senza tempo

È attraverso l’ascolto – e ascoltare senza dedicare tempo non è possibile – che si può agire concretamente realizzando architetture sociali, inclusive, aperte, in dialogo con i cittadini. Ripensare lo spazio comune come luogo per l’arte pubblica dona qualità a tutta la comunità solo se si permette a quell’insieme di attori sociali di riconoscersi in un luogo, di averne responsabilità, partecipando attivamente alla progettazione, o alla realizzazione, o ancora al suo mantenimento.

Come ha sottolineato Andrea Vanini, Presidente del Comitato InValCavallina e Assessore alla Cultura di Trescore Balneario, finché la fast politicavrà la meglio su prospettive a lungo termine e non si darà peso alla qualità, ma alla quantità allargare la partecipazione culturale, farsi aggregatori sociali e di conseguenza essere promotori di identità condivisa sarà una sfida senza grandi opportunità di successo. Compito dell’arte è saper ascoltare i desideri comuni, ma inespressi e farsi portatrice di un cambiamento che passa in prima istanza dal modo di vedere la realtà che ci circonda. Mauro Danesi, Direttore Artistico di Orlando Festival a Bergamo, ha posto l’attenzione, durante uno dei tre tavoli di lavoro – Capitale Relazionale; Partecipazione attiva; Luoghi insoliti– sulla possibilità di rendere il cittadino “agente” delle trasformazioni che desidera, di essere lui stesso richiedente perché parte attiva di uno spazio sociale condiviso.

Nella prima giornata di convegno il focus sulle criticità ha portato in luce un aspetto fondamentale della progettazione territoriale e culturale: la possibilità di confrontarsi con i flussi e, nelle parole di Laura Valli, “uscire da confini stringenti, da divisioni settoriali per agire in una società piena di dubbi, ma in cambiamento”. Ogni esperienza è differente, ma l’identità sembra sempre passare da un lavorare insieme, da un singolare che si fa plurale. Per intercettare i bisogni è necessario partire dall’io per arrivare al noi.

Camilla Fava