Io che sono nessuno
regia di Alessia Gennari
Penitenziario di Vigevano _13 maggio 2015
Per una sera, i cancelli del penitenziario di Vigevano – passato a fine 2014 da casa circondariale a casa di reclusione – si aprono alla città e nel Teatro del Carcere penetra una piccola folla partecipe, che riempie completamente la sala. In scena va Io che sono Nessuno, ovvero la storia di Odisseo ma anche quella dei protagonisti, undici detenuti della Media Sicurezza. Loro sono Alessio, Andrei, Bruno, Elinor, Ermal, Franco, Jerick, Kevin, Skuqui, Stefan e Vincenzo: attori in erba ma in molti casi già convincenti, coinvolti nel laboratorio teatrale condotto dalla regista Alessia Gennari. Sotto la sua guida attenta hanno riscritto e interpretato il mito, mettendo in luce un processo di mutuo scambio tra la vicenda dell’eroe greco e il loro portato esperienziale.
Il risultato, per quanto necessariamente imperfetto, è un piccolo successo che si misura su più fronti: umano, rieducativo, sociale e, non ultimo, artistico. “La vera svolta del carcere in chiave culturale arriva nel 2012″, spiega il direttore Davide Pisapia, “quando Mimmo Sorrentino avvia la prima operazione teatrale a fini trattamentali, con il progetto Educarsi alla libertà: un motto che abbiamo presto adottato come leitmotiv dell’istituto e che oggi assume una valenza nuova, considerati la recente evoluzione del carcere e il fatto che oltre 200 detenuti [quasi due terzi dell’attuale popolazione carceraria, N.d.A.] sono a fine pena. Abbiamo quindi operato una riflessione profonda sull’importanza per i reclusi di lavorare su di sé, per favorirne la restituzione alla società in quanto persone educate alla libertà. Si rende però necessaria un’inversione nel rapporto carcere-territorio, a favore di una maggiore inclusione del primo nel tessuto vigevanese. Ma sappiamo che una crescente responsabilità sociale si ottiene solo partendo dall’interno, dalla nostra proposta d’iniziative significative in ottica culturale, così come lavorativa”.
Trasportato nei luoghi del disagio e dell’esclusione, il teatro diventa allora strumento di sperimentazione creativa e di formazione, di riscoperta della libertà. E c’è un’idea teatrale precisa alla base di tutto il progetto, che investe tanto il cammino fatto dai detenuti nei mesi scorsi, prova dopo prova, quanto la drammaturgia della pièce: il principio secondo il quale il teatro può creare un’isola di espressione libera anche nel territorio più angusto, e può proteggerla e allargarla, andando ad allenare abilità e a promuovere evoluzioni, che sono private e collettive. In questo percorso, allestire uno spettacolo è diventato un fattore essenziale: per coltivare il gruppo attorno a un obiettivo comune, per responsabilizzarlo e consentirgli di mettersi alla prova anche nel confronto con il pubblico, accorciando finalmente le distanze con il mondo ‘fuori’.
In Io che sono Nessuno le scelte registiche aprono uno spiraglio su quello che è stato il laboratorio, un incontro a settimana all’inizio e poi due, da ottobre fino a oggi. “Ho lavorato molto sul corpo – racconta Alessia Gennari – secondo una metodologia che considero sempre un buon training per l’attore; in questo caso specialmente, perché si trattava di corpi ‘rinchiusi’, frustrati, soffocati. Ho cercato di promuovere il contatto, la relazione reciproca, e i ragazzi hanno risposto bene, con entusiasmo e fiducia. Ne sono passati almeno quaranta dal laboratorio [il turnover continuo, per quanto fisiologico in carcere, ha sicuramente rappresentato uno degli ostacoli più evidenti, N.d.A.]: di volta in volta ho proposto un tema e chiesto loro d’improvvisare, constatando che si esprimevano meglio entro più ampi margini di libertà. Abbiamo operato, quindi, per improvvisazioni successive, che poi ho fissato sulla carta”.
All’interno di una scenografia volutamente scarna, fatta di praticabili in legno modulabili e di pochissimi altri oggetti, la fisicità degli attori – valorizzata da un uso accorto delle luci, opera di Luigi Smiraglia – arriva al pubblico con forza, e sorprendono l’intensità dei volti e la precisione delle voci (tanto più se si pensa che del gruppo fanno parte sette detenuti stranieri, con le possibili difficoltà linguistiche del caso). Gli interpreti, quasi tutti alle prime armi, hanno imparato a recitare e a vestire alternativamente più ruoli. Tutti sono a turno Odisseo: ne incarnano i tormenti, la grandezza, la dignità, la miseria e il dolore. “In carcere devi indurirti per non farti schiacciare – mi spiega Franco, detenuto-attore tra i più propositivi e brillanti – poi impari a vivere nella tua sezione, ti fai degli amici e ti abitui alla mentalità carceraria. Ma hai bisogno di fare qualcosa per riempire la giornata. Il teatro mi ha offerto questo: un momento di evasione in cui lasciarmi andare, un’altra realtà, costruttiva, in cui collaborare e supportare i compagni. Mi ha dato forza. Il gruppo è cambiato nei mesi, non ci conoscevamo tutti, ma Alessia ha saputo ‘prenderci’ gradatamente, accompagnandoci e stimolandoci”.
La scelta stessa di partire dall’ Odissea non è casuale: la rilettura offerta, frutto di una scrittura progressiva e partecipata, fa leva sul vissuto dei detenuti ed è un invito insistito al confronto col mito, alla riflessione sulle umane conquiste e debolezze. “Ho messo la mia storia in quella di Odisseo – prosegue Franco – e fatto mie le sue parole, soprattutto quando si riferivano all’esigenza di riprendere in mano la libertà”.
Tra le tematiche affrontate dello spettacolo una è centrale: “Il tema dell’amore e del femminile, o meglio della loro assenza – chiarisce la regista – che qui è totale e irriducibile. In carcere l’amore resta qualcosa di negato e il laboratorio è stato lo spazio per farlo riaffiorare”. E proprio d’amore i detenuti hanno scritto molto, componendo tra l’altro le lettere a Penelope, che sul finale, significativamente, lasciano cadere nel vuoto. Eppure, sulla scena Penelope c’è: ne veste i panni Sara Urban, fondatrice insieme ad Alessia Gennari de “lattOria”, progetto che – solo per citare un paio di titoli – ha vinto il concorso Previsioni 2009 con la sua prima produzione, L’isola degli schiavi, e ha calcato il palco del Teatro Elfo Puccini di Milano nella stagione 2013-’14 con Elena. Tragedia lirica sulla deriva del mito.
In Io che sono Nessuno la figura di Penelope tesse il filo lungo cui si dipana la narrazione – insieme all’accompagnamento musicale di Tazio Forte e alle performance di tre detenuti, Bruno alla chitarra (anche autore delle musiche), Jerick ai bonghi e Vincenzo alla voce con i suoi rap: la donna si rivolge a Odisseo lontano, questi le scrive, ma il dialogo resta dolorosamente incompiuto, impossibile. Rimane tuttavia impressa nello spettatore la sensazione di una straordinaria complicità scenica tra gli attori-detenuti e l’attrice professionista: forse uno degli esiti più alti raggiunti dallo spettacolo, in termini artistici e umani. “Ho inteso il laboratorio come uno spazio protetto e da proteggere – conclude Sara Urban – in cui il tempo poteva acquistare senso positivo nella riscoperta del valore di sé e del gruppo. Uno spazio di purezza del teatro e di libertà, in un luogo che non è né puro né libero. L’esperienza in carcere mi ha restituito questo: un’urgenza umana e culturale del fare teatro”.
Ora, i presupposti sembrano esserci tutti perché Io che sono Nessuno esca dagli spazi del penitenziario, e già si stanno valutando alcune possibili location a Vigevano. Sarebbe un’occasione importante, un ulteriore passo verso un rapporto ribaltato, e inclusivo, della città con il suo carcere.
Sara Lanfranchini
foto di Cristiano Mugetti