Al contrario! è una delle tre opere di Lluïsa Cunillé che si trovano riunite nel volume che CuePress ha dedicato alla drammaturga catalana, grazie anche al contributo (curatela e traduzione) di Davide Carnevali. La trilogia (Islanda, Nebbia e Al contrario!) affronta in sequenza alcune questioni politiche che hanno investito l’Europa e anche la Catalogna: la crisi dei subprimes del 2006 e il conseguente crollo dell’economia nei paesi sviluppati del mondo occidentale, la diffusione del modello capitalistico nei paesi dell’ex Unione Sovietica, i tagli brutali subiti dal settore culturale in tutta Europa. Le opere di Cunillé, oltre a ricevere numerosi riconoscimenti, sono spesso al centro del dibattito pubblico: due eventi sono stati dedicati alla sua produzione recente, un focus all’interno della stagione del Teatre Nacional de Catalunya nel 2017 Catalunya nel 2017 e le due giornate di studio organizzate dall’Università
Tuttavia i suoi testi sono poco rappresentati, e Al contrario! (del 2013), non è ancora mai stato messo in scena. Una lettura di questo testo però è stata registrata il 12 dicembre scorso nell’ambito del progetto Teatro Aperto del Centro Teatrale Bresciano, inserendosi quindi nel progetto che, con la direzione artistica di Elisabetta Pozzi, promuove i testi più interessanti della drammaturgia contemporanea nazionale e internazionale.
Al contrario! si apre su un ufficio disordinato. Sono le tre di notte, la Direttrice giace sul divano sotto una coperta da viaggio e un cappotto, mentre lo Scenografo, seduto su una sedia, la guarda. La prima scena del dramma si svolge in questo interno, l’ufficio freddo di un teatro chiuso per mancanza di fondi. Non ci sono soldi né per ristrutturare né per programmare la stagione e tanto meno per pagare il servizio di guardia notturno. Per questo la Direttrice dorme lì: «E fai la guardia tu?» «Faccio qualche giro per il teatro» «Con questo freddo?» «Basta mettersi cappotto e guanti». Altre due scene simmetriche seguono la prima. Una si svolge in un secondo ufficio, speculare al primo ma più ordinato e luminoso. Si tratta dell’ufficio della Sindaca, sorella della Direttrice e responsabile diretta della sua nomina. È un mezzogiorno di un altro giorno, non troppo distante dal tempo della prima scena. Il teatro è andato a fuoco, la Direttrice gestisce molto male la situazione mediatica, la Sindaca è in difficoltà con gli organi dell’amministrazione e con la cittadinanza stessa, che manifesta a gran voce davanti al suo ufficio per il malgoverno della giunta comunale. Seguiamo la parabola discendente della Direttrice che, in preda a un istinto inaspettato e non decifrabile, spacca il vetro della finestra dell’ufficio e si rivolge alla folla, dichiarando di aver appiccato lei stessa l’incendio in teatro, con «l’obiettivo di scaldarmi e di scaldare questa città, anche solo per una sola notte».
La terza e ultima scena ha luogo all’esterno, nel giardino curato di una clinica. È un pomeriggio di tarda primavera o inizio estate. La Direttrice è in convalescenza. Il terzo dialogo avviene con Henrik Ibsen da vecchio, che si avvicina lentamente alla Direttrice e si siede con lei su una panchina. Incuranti dell’elemento del tutto anacronistico, parlano della Norvegia, di cani, del teatro e del ruolo di autori e registi, delle beghe di Ibsen con la sua infermiera, di visioni di gnomi da giardino, di amicizia, di insonnia. Poi Ibsen esce da un lato, la direttrice rimane sola, seduta sulla panchina.
Il perno centrale, anche al livello dell’azione scenica, è la Direttrice, elemento concreto della storia, capace di catalizzare, anche per contrasto, argomenti urgenti come la mancanza di figure femminili alla testa della gestione dei teatri. Sta prevalentemente seduta, per lo più ubriaca o comunque sempre stanca o confusa. Le conversazioni che affronta con lo Scenografo, la Sindaca e Ibsen portano avanti le riflessioni prettamente politiche del testo: tre dialoghi simmetrici, connessi da temi ricorrenti, che allargano mano a mano la prospettiva. Con lo Scenografo emerge il riferimento ironico al teatro tedesco (modello di “naturalismo estremo” cui il teatro catalano aspira) e la denuncia alla sua mancanza di identità. Con la Sindaca il dialogo verte sulla critica feroce al ruolo controverso della politica nella gestione della cultura e dei teatri, mentre con Ibsen si apre a considerazioni più generali sul ruolo e sulle possibilità di autori e registi nella situazione attuale: «Invece adesso penso che scrivere o dirigere teatro è fare i conti con gli spettri giorno e notte. Abbandonate tutto, adesso che siete ancora in tempo». Nonostante sia così esplicito, il discorso politico rimane sospeso, opaco: al contenuto manifesto e a una struttura chiara si sovrappone infatti una lingua asciutta e rarefatta, che dal naturalistico passa all’innaturale, fondata su pause e sospensioni ambigue che trascinano le scene in una dimensione enigmatica, inverosimile.
Lo Scenografo, la Sindaca e Ibsen non sono gli unici personaggi con cui la Direttrice parla: in ciascuna scena compare sempre un’altra presenza, Lei, che entra e esce dagli ambienti in modo misterioso, e si manifesta in particolare quando l’altro interlocutore della Direttrice non è presente, quasi approfittando dello stato alterato (stanca, ubriaca, confusa) di quest’ultima. Il semplice meccanismo di allontanare un interlocutore per permettere a Lei di entrare in scena si ripete in maniera puntuale e costruisce una seconda e parallela staffetta di dialoghi, che si susseguono e si richiamano tra loro. Il personaggio di Lei diventa così una ricorrenza unificante per la storia della Direttrice e per l’intera drammaturgia.
Da Al contrario!, 2:
La Sindaca esce dal suo ufficio e subito dopo entra Lei con un caffè, che mette sulla scrivania.
Lei: La Sindaca ha detto di portarti il caffè.
La Direttrice: Lavori qui?
Lei: Sostituisco la segretaria che è in maternità. Zucchero o senza?
La Direttrice: È uguale.
[…]
La Direttrice: Che succede?
Lei: Ogni giorno ci sono più di cinque manifestazioni differenti davanti al Comune. Anche all’ora di pranzo.
A partire da qui fino alla fine della scena si sentono le grida dei manifestanti. Pausa.
La Direttrice: Non si capisce cosa dicono.
Lei: Perché le finestre sono in alto e i vetri sono spessi. E poi non si possono aprire.
La Direttrice (guardando dalla finestra): Da qui non si riescono a leggere i cartelli. E neanche gli striscioni.
Lei: Ma loro non lo sanno. Non sanno che da qui non sentiamo quello che gridano e non leggiamo quello che scrivono.
La direttrice: Non si vede nemmeno la faccia che fanno.
Pausa.
Lei: Sai? A volte vorrei rompere il vetro di una di queste finestre e mettermi a gridare anch’io. Mi sento ingannata, truffata. Le leggi non sono come credevo e non le trovo giuste, come sono ora.
Pausa.
La Direttrice: Che?
Lei: Come?
La Direttrice: Cosa dicevi?
Lei: Non mi ascoltavi? Ho detto che è una settimana che vivo sola, senza dipendere da nessuno, e la cosa non è che mi abbia fatto più felice, per ora.
La Direttrice: Serve un po’ di pazienza, anche per la felicità.
[…]
La Direttrice guarda i manifestanti per qualche istante, poi prende la pistola, spara e rompe il vetro di una finestra. A quel punto si ascoltano più forti e chiare certe frasi, nel gridare generale che viene dalla strada: «Sindaca, dimissioni!», «Basta tagli!», «Corrotti!», «Stop ai licenziamenti!».
La Direttrice prende un megafono che si trovava fra gli oggetti che poco prima aveva tirato fuori dall’armadio, e parla attraverso il vetro rotto della finestra.
Lei è una figura ambigua. Prima appare come fidanzata dello scenografo, poi come segretaria della Sindaca e infine come giornalista free-lance. Si capisce che mente, nei vari dialoghi dà informazioni contrastanti e partecipa alla storia incarnando un vero e proprio enigma. Parla con frasi affettate, che sembrano citazioni o frasi fatte, a volte recita pezzi tratti da Ibsen. Altre volte, invece, come nella sezione citata, è evidente che Lei prevede o provoca il collasso della Direttrice semplicemente inserendo nella conversazione una frase sospesa, che poi finge di non aver pronunciato. La sequenza in cui Lei dice qualcosa e poi finge di non averlo fatto si ripete varie volte ed è emblematica di un procedimento di progressiva scomposizione del naturalismo che emerge in tutto il testo a vari livelli.
Cunillé affianca il contenuto esplicito e il riferimento concreto al mondo teatrale europeo, e nello specifico a quello catalano, a una sostanziale indeterminatezza scenica, difficilissima da definire perché organizzata a strati, in cunicoli sotterranei che emergono solo in parte. Il discorso politico di Cunillé, solido e strutturato, fatto da un’autrice evidentemente impegnata, si svolge in una dimensione rarefatta, innaturale. L’atmosfera è continuamente sospesa e interrotta dalle pause che inceppano i dialoghi e fanno emergere per frazioni di secondo le voragini sotterranee. L’indeterminatezza del dialogo si somma a quella spaziale e temporale: gli interni sono sciolti da riferimenti concreti, il tempo è dato solo dall’ora del giorno, dalla luminosità della scena e anche i personaggi sono emblemi senza nome proprio. L’apparizione di Ibsen si inserisce in questo procedimento: fino a quel punto della storia abbiamo creduto di trovarci in un paese indefinito in un tempo a noi contemporaneo, chiaramente post anni duemila. Ma quando Ibsen arriva e si riferisce alla Norvegia del suo tempo si apre un altro scenario possibile, che affianca quello della confusione della Direttrice. Nulla nel testo contraddice la possibilità di essere davvero in Norvegia, al tempo di un anziano Ibsen.
Questi elementi producono un forte spaesamento in riferimento al discorso politico al centro del dramma. Al contrario! è un’opera senza tesi, che si muove in direzione opposta all’idea dell’opera-manifesto e che rifiuta di fornire indicazioni, sia sull’aspetto scenico che sull’aspetto ideologico. Questa precisa scelta, insieme a una scrittura raffinata e enigmatica ma ostica per il suo estremo rigore, pone delle serie sfide alla messa in scena del testo. In altri termini, chi volesse mettere in scena Al contrario! si troverebbe a seguire una sensazione molto vaga: sento che c’è una voragine, ma non so bene dove, sento che il punto scenico deve essere un altro rispetto al discorso politico, ma non so bene quale. In sede di messa in scena è necessario proteggere questo sentimento complesso e indefinito che è la colonna vertebrale del testo, l’incertezza su cui tutto si regge e che rende questo testo prezioso proprio perché così rigorosa e per niente rassicurante. Un’ambiguità strutturale che rende questo testo ancora più politico, perché offre sia a chi lo mette in scena sia allo spettatore uno spazio di manovra nell’interpretazione e permette forse di adattarlo a un contesto non catalano, ad esempio, o a un tempo diverso, successivo, prossimo al nostro.
La Direttrice: Sì, l’ho bruciato come iniziativa personale e senza l’aiuto di nessuno. […] Il Teatro Municipale non sarà più un pericolo per nessuno. Finalmente ci siamo liberati di quell’edificio in rovina, che con la sua sola presenza ci faceva sentire tutti a disagio a causa della sua decadenza, decadenza che ci ricordava sempre di più la nostra decadenza, e a causa della sua assoluta inutilità, che pure ci ricordava sempre di più quella di tutti noi, visto che sul suo palco era già da un pezzo che non si rappresentava niente, niente che commuovesse o che toccasse davvero i nostri animi.
L’imbarazzo di fronte alle rovine del teatro chiuso è un nostro imbarazzo di oggi, e mette in luce un altro motivo che fa di questo testo una bella possibilità politica e teatrale. Rifiutando l’espressione ideologica, Cunillé abita con rigore l’esperienza del dubbio e chiede a chi vuole metterlo in scena di fare altrettanto, portando alla luce l’ipotesi, almeno da considerare, del rogo.
Tolja Djokovic