Das Kohlhaas-Prinzip (Il principio Kohlhaas) di Yael Ronen dalla novella di Heinrich von Kleist
visto al Maxim Gorki Theater di Berlino _ in cartellone fino al 25/10/2015
Come si mette in scena un classico in prosa della letteratura mondiale? Come lo si adatta alle esigenze del pubblico odierno? E come servirsene per una riflessione metateatrale? Nello spettacolo liberamente tratto dalla novella Michael Kolhaas (1808) del poeta tedesco Heinrich von Kleist, prodotto dal teatro Gorki di Berlino, si dà una risposta esemplare a tali questioni. Il testo e la regia sono di Yael Roen, nata nel 1976, israeliana; l’ interpretazione vivace, passionale, senza smagliature, è affidata al suo ensemble.
Prima qualche parola sul contesto: il teatro Gorki ha sede in un edificio neoclassico che costituisce un elemento di spicco dell’ideale “Atene sulla Sprea” progettata da Karl Friedrich Schinkel; nato come sala da concerto, sorge nel cuore del celebre viale “Sotto i tigli”, proprio dirimpetto al castello di Berlino, da qualche anno in costruzione secondo l’originario progetto di fine Settecento. Dopo la guerra e le sue mutilazioni, il Gorki – che prende ovviamente il nome dal discusso scrittore russo, padre del realismo socialista letterario e teatrale – divenne nel 1952 il ‘teatro del presente’ della Berlino comunista. Tuttavia non fu mai un teatro di regime. Nel 1988 la messa in scena da parte di Thomas Langhoff del dramma Società di passaggio, con il cantautore dissidente Volker Braun, anticipò profeticamente la rivoluzione pacifica del 9 novembre 1989 e la caduta del muro.
Il Gorki ambiva e ambisce dunque ad essere il teatro di Berlino e delle sue voci: ciò oggi vuol dire di una società multiculturale, in piena crisi economica e sociale (al contrario di quanto ci fa credere la stampa e la propaganda), che ha ancora i conti aperti con il passato e si confronta d’altronde con un presente in vorticoso movimento nel senso più concreto del termine: con rifugiati, immigrati, nazionalisti esasperati di ritorno, disorientati. Ogni produzione del Gorki pone questioni fondamentali della società tedesca ed europea, grazie adesso all’intelligenza e all’esperienza della nuova sovrintendente, Shermin Langhoff, che viene dalla televisione e dal teatro di sperimentazione Hebbel.
Passiamo allo spettacolo: ambientata nel XVI secolo, la novella di Kleist racconta di un uomo vittima di un’ingiustizia, che decide di farsi giustizia da solo, e così tradisce i suoi stessi ideali. Questo Kohlhaas versione 2015 denuncia altresì l’ingiustizia che si annida in uno Stato di diritto, la prepotenza occulta della politica sull’ individuo, la violenza e la sopraffazione che ancora regolano i rapporti sociali. La nostra società apparentemente funziona (quella tedesca, inoltre, ‘funziona’ per antonomasia), i suoi cittadini non dovrebbero essere intaccati nei loro diritti, anche quelli elementari, umani. Invece non è così: nel sistema si annidano pericolose smagliature e persino buchi neri; in uno di essi, casualmente, cade il protagonista della pièce.
Michael Kohlhaas è uno scrupoloso cittadino tedesco, ecologista e industrioso (commercia biciclette elettriche); mentre il pacifico Michael passeggia in bicicletta col figlio di tre anni, un SUV corazzato gli taglia la strada e ferisce il bambino. Il desiderio di Michael di avere giustizia è frustrato dal fatto che il proprietario del SUV si rivela il figlio di una ricca famiglia di industriali, legato alle massime cariche del governo: a Kohlhaas resta solo rabbia, risentimento e una vita distrutta. Tuttavia l’esasperato protagonista caparbiamente continua a cercare giustizia, a dispetto di umiliazioni e difficoltà che lo trascinano alla rovina; sino a convogliare la rabbia di altri umiliati, che sconvolgono il Paese con atti terroristici in suo nome. Il destino di Michael si incrocia con quello di un’altra vittima, un commerciante palestinese di formaggio, scappato dal proprio paese per evitare la persecuzione politica e approdato come clandestino in Germania. A Kohlhaas, messo in prigione, viene offerta la salvezza, purché accusi l’emigrato clandestino di essere il responsabile del movimento terroristico. Ma Kohlhaas rifiuta.
Un classico è un classico quando riesce a parlare al di là dei secoli. In questo caso, la revisione di un classico della cultura tedesca racconta i drammi insoluti della società tedesca ed europea: una società intimamente, profondamente, ingiusta e corrotta nonché in pieno caos, atterrita dalle nuove invasioni di metaforici corvi neri, che compaiono in un video e nel programma di sala. Reclusi in una prigione nel deserto, affamati e assetati, tenuti sotto controllo dalle armi di cecchini, i corvi si rivelano capaci di fuggire e aggredire: “Il suo primo giorno di lavoro nella duna degli immigrati, il cecchino uccise 20 corvi. Il giorno dopo una nuvola nera, gracchiante, incombeva sulla città. Migliaia di corvi neri erano venuti fuori dal nulla. Volavano in picchiata sulle teste delle persone, strappavano loro la pelle dalle ossa, ne beccavano le carni e lanciavano un acuto, straziante grido. I guardiani della prigione sapevano che nella lingua dei corvi questa era la parola per VENDETTA” – si legge, tra l’altro, nel programma di sala.
Il teatro ha anche il compito di raccontare la rabbia, il desiderio di vendetta, la tensione sociale: lo premette l’ensemble in un efficace prologo metateatrale alla piéce. Resta però l’amaro in bocca: perché nel più generale contesto, la vicenda pur terribile di Kohlhaas e del mercante palestinese, nella loro classica esemplarità, si ridimensiona a storia banale di normale, quotidiana, ingiustizia. Nulla, rispetto alle catastrofi collettive.
Sotera Fornaro