di e con Aleksandros Memetaj
regia di Giampiero Rappa
visto il 21 giugno 2016 nell’ambito del programma di Innesti
Aleksandros Memetaj, classe 1991, aspetta il pubblico sul palco del Teatro Menotti, in tuta e a piedi nudi.
Intorno a lui il palcoscenico è spoglio e nero: nessun orpello, nessun oggetto, solo corpo, gesti e voce ci guidano in un racconto che è una biografia, messa in scena in prima persona dal suo protagonista.
Aleksandros Memetaj e il regista Giampiero Rappa si sono incontrati alla scuola di recitazione Fondamenta a Roma e hanno deciso di collaborare partendo dalla storia di Aleksandros: un viaggio che parte da Vlorë in Albania e approda a Fiesso d’Artico, un piccolo paesino in provincia di Venezia dove la sua famiglia si stabilisce.
Memetaj comincia dall’inizio. Dai primi anni in Italia, quando trovare la propria identità, a scuola e fuori, si rivela più faticoso del previsto. Persino la più banale delle domande “Come ti chiami?”, può nascondere un’insidia: lui è Sandro per il papà e Alessandro per i compagni di classe ma all’anagrafe c’è scritto Aleksandros. E quella K, ogni volta, gli si blocca in gola. Eppure la sua lingua madre, lentamente, diviene sinonimo di possibilità di comunicazione altrimenti precluse: permette a lui e ai due cuginetti di resistere alla quotidianità, di sfruttare questo vivere nel mezzo a proprio vantaggio, deridendo i bulletti, le maestre intransigenti, i compagni che non sanno capirli.
Quella capacità di ridere e di alleggerire i toni che Aleksandros dimostra fin dalla giovinezza, investe anche tutto il monologo, che appare caratterizzato da un doppio codice espressivo: Mametaj e Rappa si muovono tra momenti quasi comici (come le imitazioni dei veneti e quelle degli albanesi), e passaggi narrativi densi di pathos. La fisicità di Aleksandros riempie la sala, rende presenti, quasi visibili, le immagini della sua Albania, della fuga dei genitori su un peschereccio verso un’Italia sognata.
Ma il racconto di Albania casa mia va ben oltre le vicende di un singolo individuo, o di una singola famiglia: come Aleksandros, costantemente sospeso tra due paesi e due culture, anche il pubblico si trova ‘in mezzo’ e viene portato a riflettere sui confini tra l’essere cittadino e migrante, tra l’accettazione e il rifiuto. Ed ecco perché i toni dello spettacolo sanno diventare profondamente umani e, al contempo, epici. Un’epica che ha un valore storico e sociale, in grado di far ridere e riflettere senza diventare documentaristica o pietistica. Un’epica che racconta una storia vicina a ognuno di noi.
Camilla Fava