Alla fine di un viaggio, il turista tira le somme. Già nel treno di ritorno è lì che scarica le foto, ripassa le parole apprese e misura le aspettative con le sorprese e le delusioni. Soprattutto, ripercorre gli episodi cruciali e stravaganti, i volti e le sensazioni, talvolta i rischi che ha corso e le fortune che è riuscito ad assaporare. È tempo di bilanci per il focus Austria di Calapranzi e, come ogni turista onesto, anche noi sappiamo che avremmo voluto passare più tempo fra queste fabbriche di drammaturgia.
Fabbriche lo sono state veramente: sul piano della varietà dei prodotti e delle specializzazioni degli operai-scrittori. Tutto si è aperto all’insegna del divertimento:
Divertimento [Spaß]
È il sentimento col quale Studlar chiede agli attori di approcciarsi alla messa in scena della sua trilogia, ed è anche il sentimento che spera di suscitare nel pubblico. Un sentimento nient’affatto semplice. Dentro di esso c’è la pedagogia della scoperta, dell’uso della parola, del paradosso, del gioco e ovviamente del teatro.
La Trilogia della meraviglia (Dietro l’angolo, A presto e Buon appetito!) di Bernhard Studlar ci ha subito piacevolmente spiazzati. Perché da noi non è così naturale che un drammaturgo affermato si occupi del cosiddetto “teatro ragazzi”. Nell’intervista che chiude il focus, Studlar spiega che questi testi tanto vicini al teatro dell’assurdo quanto lontani da un più classico stile fiabesco sono così sperimentali perché «sapete, l’infanzia è sempre anarchia». Nel suo articolo, Gianmarco Marabini ci racconta di un drammaturgo che non sottovaluta il pubblico più giovane, ma anzi ne esplora il mondo per un dialogo che può rivelarsi rivoluzionario.
Questa libertà e molteplicità di sguardi sulla scrittura e sul mondo del teatro è una delle qualità che ci ha più stupito di questo autore– non a caso gli abbiamo dedicato un “focus nel focus”. Studlar si è rivelato anzitutto un maestro di relazioni, ma relazioni non soltanto fra dramatis personae:
Coltivare le relazioni [Beziehungspflege]
La lingua tedesca, si sa, può combinare elementi diversi della sintassi per creare un’unica parola che esprima in modo più esatto il concetto che si vuole esprimere. È il caso del termine usato da Sauter nel manifesto per il futuro del teatro d’autore, firmato anche da Studlar. Beziehung è il sostantivo che esprime la relazione, il rapporto: talvolta si può tradurre anche con il termine “coppia”. Pflege è anch’esso sostantivo. Esprime la cura, la tutela, il coltivare. «Prendersi cura di noi – è prendersi cura di voi».
Mentre fotografava un’altra sorpresa drammaturgica – il sodalizio intellettuale fra Studlar e Andreas Sauter da cui è nato A. è un’altra – Francesca di Fazio puntava l’obiettivo sull’idea potente di autorialità che sta alla base di quel sodalizio. Un’idea non troppo teorica, ma fortemente calata nella realtà e nella pratica del teatro austriaco, tedesco ed europeo: la prospettiva di uno scenario possibile in cui gli autori siano meno soli e più liberi dagli stereotipi culturali. Sarà per questa passione per la realtà relazionale che A. è un’altra problematizza tanto il concetto di reale, lasciando in ultimo lo spettatore-detective con un pugno di mosche? Studlar si conferma un drammaturgo completo, un uomo di teatro dallo sguardo lucido e profondo sul presente. Ce lo dimostra con uno dei suoi testi più riusciti, Notte senza stelle, una prova di scrittura allo stesso tempo temperata e piena di imprevisti poetici, come direbbe l’autore. Una prova di grande “progressione”, ci dice Fabiola Fidanza:
Progressione [Fortschreiten]
Passaggio graduale a un termine o a uno stadio successivo; implica per lo più l’idea di accrescimento, talvolta inarrestabile. Da cosa nasce cosa, da cui nasce cosa a sua volta. Nella progressione vi è il principio del caos. Nella progressione, vi è pure il principio della struttura. Riferito alla musica, nella progressione vi è il ripetersi di un disegno melodico su gradi diversi della stessa scala o su corrispondenti gradi di una scala diversa; in armonia, il ripetersi degli accordi anziché delle singole note; nel contrappunto, il ripetersi simmetrico di un intero episodio polifonico, in zona più acuta o più grave, con o senza modulazione. Nella progressione vi è anche il principio della narrazione.
Piani narrativi che si intrecciano, una vicenda che cresce fra armonie e contrappunti, soprattutto voci che non si impongono mai l’una sull’altra ma si definiscono nella propria incompletezza, nel proprio sguardo desolato sotto un cielo privo di stelle, in un teatro scosso (nella finzione e nella realtà) da inquietudini sociali e politiche.
Se dovessimo trovare un denominatore comune per questi testi austriaci, consisterebbe proprio in una crisi e poi in una sparizione completa dello statuto dei personaggi, del loro spessore e delle loro parabole. Sono in crisi quelli di Studlar, perché il mondo che abitano toglie loro sempre più verità e valori. Si riducono a pura sequenza di voci quelli di Aiuto illegale di Maxi Obexer, nonostante in questo caso emergano dei valori in coraggiosa opposizione con le leggi scritte. Attraverso l’articolo di Tolja Djokovic, il teatro documentario di Obexer ha rappresentato una periferia meno illuminata rispetto al centro del teatro moderno, brechtiano e beckettiano di Studlar, ma senza dubbio più diretta e tagliente. Non fosse altro che per la concretezza del segnale lanciato a tutta l’Europa, un segnale etico-politico che grazie alla drammaturgia riemerge dall’indifferenza:
Aiutante [Helfer]
Chi aiuta un altro o un’altra nell’esercizio delle sue mansioni, da aiutare: soccorrere, facilitare, assistere, prestare ad altri la propria opera in momenti di difficoltà. Aiutante illegale: persona che agisce sostenendo, facilitando, assistendo e prestando soccorso a un’altra persona, mossa da un sentimento morale legittimo, illegale però agli occhi dello Stato (vd. Antigone).
Obexer e Studlar hanno quasi cinquant’anni. Le loro scritture non possono certo dirsi classiche, anzi entrambi sperimentano un’ampia gamma di linguaggi drammaturgici e sperimentazioni, intrusioni e contaminazioni. Nonostante siano evidenti in entrambi gli influssi, diretti e indiretti, del teatro tedesco, la compiutezza e la coerenza delle loro opere drammaturgiche fa tutt’uno con la loro forte autorialità. Se un altro comune denominatore delle drammaturgie lette durante il focus di Calapranzi può essere trovato nell’attenzione verso temi sociali e politici, nel loro caso la drammaturgia è attiva e investita di un compito ben preciso: problematizzare, smuovere coscienze, porre dubbi sull’esistenza e sul vivere insieme. La radice rimane ovviamente brechtiana.
Nel caso di Thomas Köck e Miroslava Svolikova, due fra i più importanti drammaturghi austriaci della generazione recente, le cose vanno in maniera decisamente diversa. Se sul piano stilistico non si parla più di inserti e di fresche sperimentazioni ma di inediti dispositivi formali, sul piano contenutistico e socio-politico non vi è più una condanna etica netta e razionale della società, ma una constatazione meno impegnata e più constatativa della desolazione capitalista. Quasi un essere già al di là di una soglia di non ritorno:
Al di là [Jenseits]
avv. Di là da un luogo, dall’altra parte – che vorrebbe dire che siamo oltre il limite tracciato da Fukuyama; ma “Jenseits” è anche l’“al di là” di Nietzsche, oltre il bene e il male; ed è anche l’aldilà tutto attaccato, che siamo vivi in un oltretomba.
Oltre Fukuyama di Thomas Köck non parla più di Europa o di attentati neonazisti, ma di un mondo di uffici squallidi e piccole grettezze quotidiane: di una mediocrità che non concede più spazio al libero pensiero. L’uso del coro, infatti, completa quel processo di smantellamento dei personaggi in maniera programmatica. È un coro la cui tragedia si è già compiuta ancora prima che il sipario si apra: che quasi ci trova gusto in questa lagna sterile, suggerisce Jacopo Giacomoni. La Svolikova pare addirittura prendersi gioco della monotonia sociale, lasciando intravedere fra le sue voci senza identità un ciclo vuoto e infecondo, un gioco autolesionista e macabro di speranze e disillusioni:
Speranza [Hoffnung]
La speranza, secondo la definizione che ne dà il vocabolario Treccani, è «un sentimento di aspettazione fiduciosa nella realizzazione, presente o futura, di quanto si desidera». La speranza è un seme, si nutre, si accarezza, si culla. La si può infondere, può sorreggere, ma anche svanire, crollare, essere abbandonata o perduta. La speranza non può essere descritta con aggettivi “forti”, perché è un barlume flebile, un briciolo, un’ombra. La speranza è calpestata e sepolta sotto il fango della conca. Se guardiamo abbastanza a lungo dentro la conca, sarà la conca a guardare noi.
Quest’ultima diapositiva – ultimo lemma di quel piccolo “Glossario austriaco” che abbiamo raccolto durante il viaggio austriaco – ci ricorda l’attenzione linguistica di Miroslava Svolikova nel suo Gli accovacciati, e in particolare quei condizionali morti prima ancora di concludersi che Carlotta Pansa non si è lasciata sfuggire.
Come ogni turista al ritorno da un viaggio, non possiamo avere un’immagine completa ed esaustiva della drammaturgia austriaca degli ultimi anni, né tantomeno della società austriaca – specie se pensiamo a quanto più dei loro predecessori, gli ultimi due autori evocati siano legati a un orizzonte teatrale germanocentrico, se così si può dire, legato a testi formalmente più fluidi e adatti a una regia sperimentale e dominante. E non sembra un caso se Studlar punta il dito proprio sulla “dittatura dei registi”, lamentando che «nelle aree germanofone (Austria, Germania, Svizzera) il teatro si focalizza sul lavoro dei registi» e che «i teatri dovrebbero prestare più attenzione ai drammaturghi in vita, o almeno interessarsi a noi come si interessano ai colleghi morti». Noi turisti possiamo fare supposizioni, rilevare tendenze e movimenti sotterranei alle drammaturgie che qualcosa dovranno pur dirci. La crisi, la scomposizione e quindi l’annullamento dei personaggi sembrano intessere una trama che, per quanto comune ad altri lidi drammaturgici, ha un sapore particolarmente agrodolce in Austria, come di qualcosa che si perde senza sapere ancora cosa si è guadagnato. Qualcosa che ha sicuramente a che fare con la contemporaneità, sociale e culturale.
Oltre ai ricordi e alle diapositive, quindi, ci rimangono tante domande. Una sola cosa resta incrollabile, e rappresenta la spinta che continuerà a farci fare la valigia e uscire di casa: in un’epoca di gretti individualismi e di psicopatologie diffuse, il teatro continua a non proporre identità luccicanti e pronte per l’uso, ma tiene l’occhio lì, su quel magma sociale i cui sotterranei e intricati compromessi rendono ciascuno di noi sempre più indistinguibile.
Riccardo Corcione
Foto di copertina: © Minzla Feline