Una luce chiara si mescola al fumo e si riflette sulle rocce dorate di una terra surreale, dove due presenze animalesche, uomini con la schiena ricurva sotto una pelliccia di animale, vagano lentamente come alla scoperta dello spazio intorno a loro, fino a sparire nelle quinte. Come in un sogno ad occhi aperti, la luce si fa buio, il telo d’oro, mosso avanti e indietro da quattro danzatori, si trasforma, da sasso in onda, e fa desiderare allo spettatore di essere inghiottito da questo mare immaginario che brilla nel buio.
Entrano gli undici danzatori della compagnia le Supplici: indossano costumi neri brillanti che aderiscono in maniera perfetta al corpo coprendolo interamente dal collo in giù. Da una formazione diagonale iniziano a muoversi con gesti precisi, perfettamente in sincrono, come se stessero eseguendo una danza tribale, celebrando un rito sacro. Da questo unico organismo danzante, si separano alcuni elementi che si muovono, di volta in volta, in solo, duetto o altre combinazioni; ma alla fine il gruppo si ricompone sempre. È un alternarsi di caos e ordine: le dinamiche del movimento cambiano così come varia la musica che, dalle note dei Sigur Rós a quelle degli Holden, è ora ritmata e onirica, ora rarefatta e onomatopeica. I movimenti tecnici e ineccepibili dei danzatori si alternano a movimenti inusuali e animaleschi. Ogni elemento concorre a trasportare gli spettatori in un’altra dimensione, in un’atmosfera ipnotica che non ha niente di umano.
Nel finale ricompare l’alce, l’animale che apre e chiude la coreografia a cui dà il titolo: è fermo sulla scena, mentre frammenti d’oro piovono dall’alto; uno dei danzatori si avvicina per offrirgli qualcosa da mangiare, compiendo forse l’unico gesto umano che il pubblico riconosce nel linguaggio quasi incomprensibile che parlano i danzatori. Sono proprio quei segni più enigmatici ed evocativi che permettono allo spettatore di farsi guidare dalla sua immaginazione, in uno spettacolo che non ha volutamente una traduzione univoca. È anzi proprio nelle suggestioni continue, nella volontà di non dare risposte precise che si trova il senso più profondo del lavoro: aprire nuovi spazi di pensiero e nuovi orizzonti alla contemplazione.
Bettina Bernardi
ALCE
Coreografia Fabrizio Favale
Set First Rose
Danzatori Daniele Bianco, Vincenzo Cappuccio, Martina Danieli, Andrea Del Bianco, Fabrizio Favale, Francesco Leone, Angelica Margherita, Mirko Paparusso, Andrea Rizzo, Valentina Staltari, Po-Nien Wang
Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico MILANoLTREview