Alexandra Badea (1980) inizia la sua formazione teatrale in Romania, dove studia regia all’Università di Cinema e Teatro di Bucarest. Racconta di essersi avvicinata alle arti sceniche per caso: nello stesso edificio della scuola che frequentava era infatti presente anche un teatro, e un giorno, incuriosita dai camion del trasporto scenografie parcheggiati in cortile, aveva deciso con alcuni compagni di andare a vedere lo spettacolo allora in allestimento, della regista Cătălina Buzoianu. L’impressione che ne aveva avuto era stata fortissima, tanto da spingerla a ritornare a vederlo innumerevoli volte nell’arco dell’anno.
Dopo la laurea, all’età di 23 anni, si trasferisce a Parigi. Il suo lavoro assume così il carattere ibrido di una doppia esperienza, quella della Romania pre e post caduta del muro, e quella della Francia, che dietro la splendida patina di libertà, uguaglianza, fratellanza, nasconde un passato colonialista feroce e l’arroccamento in una chiusura xenofoba nei confronti dei più recenti movimenti migratori.
A Parigi, Badea comincia a scrivere in lingua francese, eludendo i vincoli del rumeno scritto, appreso sui poemi patriottici da imparare a memoria durante la dittatura. Il francese le offre fin da subito un campo di enorme sperimentazione: trattandosi di una lingua straniera, racconta l’autrice, le dava la libertà sia di sbagliare, da un lato, che di allontanarsi da tutti i condizionamenti sociali, scolastici e familiari che il rumeno inevitabilmente implicava.
Allo stesso tempo, l’infanzia e la prima adolescenza passate sotto il regime di Ceaușescu sono un motore costante nella scrittura di Badea, che assume taglienti contorni politici. L’incrocio-scontro fra le due culture diventa un inesauribile punto di partenza e urgenza, più che un campo tematico dal quale attingere: «My subjects are very connected to my multicultural existence. I would have probably not written if I hadn’t frequented other cultures. I only write about things that impact me, brutalize me, that obsess me, things I really need to understand».
Il suo teatro non si propone di essere una testimonianza né vuole essere documento, ma attraverso la finzione va a ricercare, analizzare, dissezionare analoghe forme di sopraffazione – sempre presenti e sempre nuove – che percorrono la nostra storia, la nostra quotidianità, senza distinzione di nazionalità.
E così in Europe Connexion la provenienza geografica non ha alcuna rilevanza. La voce narrante, personaggio unico del testo, agisce nelle zone franche e apolidi del Parlamento europeo e delle commissioni di Bruxelles, dei convegni, delle lobby e delle enormi multinazionali. Si muove in luoghi in cui non ha importanza da dove si viene, quanto piuttosto fin dove si è disposti ad arrivare.
In un monologo interiore che è una propulsione instancabile, un infinito lavoro di problem solving rapido, efficace e immediato, seguiamo il pensiero dell’assistente di una deputata del Parlamento europeo che si dedica anima e corpo alla costruzione di una carriera da lobbista. «Commissione Ambiente, salute pubblica e sicurezza alimentare» dice il protagonista, incaricato dalle lobby di attentare silenziosamente alle proposte di regolamentazione del mercato agroalimentare, «il massimo». Dopo aver passato tre anni in Parlamento, arriva il momento di «cambiare di campo»: con l’ambiguo titolo di “esperto”, il lobbista comincia a lavorare direttamente per le multinazionali, guadagnando almeno dieci volte tanto.
Una difficile manovra per uniformare le semenze mondiali – obbligando così gli agricoltori di tutto il mondo ad acquistarle da pochi grandi produttori, che a loro volta forniscono anche gli unici pesticidi validi – sarà portata avanti brillantemente dal protagonista, che però scivolerà in un burnout incontrollabile e devastante.
Il mondo ultra globalizzato del lobbista è un non-luogo grande quanto il pianeta stesso. La spazialità si smaterializza, si entra in rete, si prendono decisioni, si inoltrano in un flusso di mail, cambiando vite in India, in Africa, dei nomi svuotati che sembrano aver perso qualsiasi radicamento territoriale. La mappa geografica dell’instancabile pensiero del protagonista diventa il suo enorme numero di post-it virtuali, che si spartiscono nazioni di colori diversi:
Hai ricoperto lo schermo del tuo i-pad di post-it virtuali. Tre colori rivalizzano tra loro: blu, giallo, rosa. Blu: le azioni da fare per distruggere la reputazione dello scienziato che ha decretato che le vostre sostanze fanno venire il cancro. Giallo: le azioni da fare affinché lo studio sui benefici del biologico non porti a nulla. Rosa: le azioni da fare per diffondere le vostre falsate tipo sostenere i pesticidi per salvare l’umanità.
Vivi la tua vita in blu giallo rosa.
[…]
Post-it blu: rifili il rapporto dello scienziato a un altro scienziato perché vi trovi delle falle.
Post-it giallo: nella lista dei ricercatori a suo tempo premiati dai tuoi clienti scegli i più affidabili e li sbatti in un gruppo di ricerca che studierà i benefici del bio.
Post-it Rosa: organizzi un grande evento, funziona sempre. Gli dai un nome fuorviante: Avvenire del mondo – le poste in gioco di domani.
Abituati a monologhi interiori di novecentesca memoria, che sondavano le in-avventure di inetti incapaci di vivere, ci si trova con una certa sorpresa dinanzi a questo soggetto profondamente volitivo, fattivo, intelligente, potente. È un po’ come se il teatro avesse deciso di immergersi nella vasca degli squali, dopo essersene tenuto attentamente in disparte – con alcune importanti eccezioni –, e aver lasciato il campo al cinema anni ’80 e ’90 (ma anche più contemporaneo).
Con gli strumenti che gli sono propri, ovvero un linguaggio antinaturalistico, profondamente caratterizzato, con ripetizioni, sintassi breve o brevissima, improvvise inserzioni di linguaggio tecnico burocratico, e una seconda persona singolare “tu” martellante che ricorda un monologo allo specchio, un costante dialogo impositivo con sé stessi («Sai parlare. Parli bene. Rubi le parole degli altri ma te ne appropri alla perfezione. Chi mai potrà dubitare di te?»), il teatro entra con un’inedita prossimità all’interno del pensiero di questi finora sconosciuti elementi della nostra classe dirigente, di questi criminali, i nostri nuovi nobili cechoviani che ora si spartiscono il mondo intero.
Se le lobby sono nel nostro immaginario qualcosa di estremamente astratto, tanto da parlarne sempre al plurale come insieme malevolo di congiure non meglio identificate, qui si entra in contatto con una figura che vuole programmaticamente farne parte integrante, e che ci spiega come e cosa fare. Nuotare in simili acque dà già di per sé una certa ebbrezza.
Così la scrittura di Badea si riempie di verbi che risolvono, che cambiano task, scandendo la vertiginosa velocità della narrazione («In un minuto puoi risolvere un problema che a un altro lobbista costerebbe un’ora di lavoro»), passando dalle 8.30 alle 9:00, dalle 9:00 alle 10:30, dalle 10:30 alle 11:00, alle 11:30, alle 13:00, portando il nostro protagonista a guadagnare dai 400 ai 500 euro l’ora, dai 500 ai 600. Verbi puntuali, perfettamente identificati, che ci fanno vivere il brivido per gli affari, ci fanno comprendere il rischio di un’operazione ma anche capire che potrebbe andare in porto, e ci fanno vivere l’angoscia di non sapere cosa succederà nell’immediato futuro. Allo stesso tempo sono verbi assolutamente vuoti di significato, eppure gravidi di conseguenze e ancora conseguenze.
Il protagonista così fa ricerche automatiche per cancellare documenti (in base a parole come “protesta”, “contestazione” ecc.), incontra lobbisti, fa pause caffè con altri assistenti, cita studi che sa essere falsi, briffa, fa il coach, fa slittare con un emendamento il voto al weekend, diventa membro integrante di commissioni, comitati, think tank, club e reti, stampa biglietti da visita, fa copia incolla da blog di protesta per tutta la notte, assiste a conferenze, uniforma e semplifica, emenda e giustifica, sovvenziona conferenze universitarie pilotate dietro il paravento di ONG da lui stesso fondate, assume Doliprane, whiskey, Xanax, caramelle al caffè, Redbull, prende dossier, parla con i senior executive, influenza il big boss. Un bottino lessicale sicuramente poco frequente in teatro, decisamente presente nella vita politica e aziendale.
Il movimento manipolatorio e predatorio del protagonista gli crea nemici e contestazioni, oltre che causare morti e povertà, ma il problema etico non è mai preso in considerazione. Il lobbista non si chiede se le sue azioni siano corrette, perché sa già perfettamente di no. L’unica questione per lui è capire quanta energia ha a disposizione per mantenerne a bada la consapevolezza, e continuare ad agire su di un binario parallelo. Il dubbio morale non esiste, se non come contrattempo che ostacola la fluidità dell’azione. Eppure a un certo punto, semplicemente, per accumulo, diventa più forte dell’azione stessa.
La crisi arriva davanti a una teca di vetro piena di girasoli e api, un diorama pulsante pieno di pesticidi. Il convegno internazionale in cui si trova esposta è il coronamento della strategia del lobbista: ha passato mesi a organizzare, dietro paraventi e prestanome, questo vacuo, enorme incontro tra Università e azienda, per negoziare con sé stesso le modalità di commercio dei pesticidi prodotti da sé stesso, in un circolo vizioso vertiginoso. Mentre osserva il lavorio delle api, a dimostrazione del perfetto svolgersi dell’impollinazione anche su fiori trattati con elementi chimici (ma ancora una volta, è tutto vuoto, è tutto falso: in verità il prodotto è fuori dalla teca), il lobbista ha un crollo irrecuperabile.
Osservi l’agitazione delle api e ti ci ritrovi. Esegui gli stessi movimenti caotici nei corridoi del parlamento europeo con l’unica differenza che tu non produci niente. Solo parole. Nient’altro che parole. Parole che riempiono i dossier dei funzionari. Parole che fanno moltiplicare le cifre d’affari. Le tue parole hanno lo stesso odore dei pesticidi. Puzzi d’acido.
L’analogia con il movimento delle api, con il loro ronzio spigoloso e caotico riesce a spiegare con estrema rapidità ed efficacia – attraverso una forma, più che con argomenti e ragionamenti – la completa perdita di lucidità del protagonista e la sua enorme difficoltà a dissimularla.
Superi l’acquario delle api, ti incolli il sorriso sulle labbra e nel momento in cui ti appresti a inchinarti davanti al relatore incaricato del dossier vedi i tuoi insetti uscire dal loro recinto. Nessuno reagisce. Soltanto tu vedi ovunque api che impollinano a morte. Tutti i corpi sono ricoperti di insetti e nessuno si muove allora capisci di essere nel mezzo di un’allucinazione. Prendi un bicchiere di vino e tutto va meglio. Le api sono tornate al loro posto, dietro il vetro e tu continui a stringere mani mescolando xanax e alcool.
Quando sei sul punto di spifferare un discorso prefabbricato a un esperto di non si sa più quale autorità europea le api cominciano a morire. La sala si riempie di cadaveri e nessuno muove un dito. A parte te.
Sapendo di non poter più affidarsi all’autopercezione, il lobbista cerca di prendere le misure in base al comportamento altrui, disposto ad avanzare come un cieco mentre il mondo, all’interno della sua testa, si sfalda.
La sfida per una messa in scena del testo di Alexandra Badea potrebbe derivare dal carattere chiuso, quasi concluso della scrittura. Spesso è la drammaturga stessa a occuparsi dell’allestimento dei suoi testi, come dimostra la residenza a Castrovillari del 2018, compiuta in seno al programma Fabulamundi con la compagnia italiana Il nastro di Moebius. In questa sede vale la pena sottolineare l’interessante esperimento compiuto quest’anno da Lisandro Rodríguez, che ha portato lo spettacolo Extremófilo, da un testo di Badea, al festival Presente Indicativo nella sua prima edizione al Piccolo Teatro di Milano. L’operazione compiuta dal regista argentino è risultata inaspettata quanto, per molti aspetti, profondamente indovinata. Con gli attori Anabela Brogioli Quenard, Ariel Bar-On e Zoilo Garcés, infatti, Rodríguez ha compiuto piccoli attentati al testo. Non ha fatto ricorso a costumi, a scenografie con mobili in finto legno e marmo, ma ha fatto recitare gli interpreti in una scena spoglia, chiedendo loro di mettere e togliere parrucche improbabili, aumentando e diminuendo la luce attraverso i normali interruttori della stanza, e portando in scena birra, macchinine radiocomandate, musica elettronica dal vivo e un’enorme, inconoscibile struttura coperta da un telo, posta al centro del palco. Le costanti rotture del dispositivo scenico, una sorta di continuo oltrepassamento del limite che divide il pubblico dagli attori, hanno per converso permesso un accesso al testo più diretto, immediato, e probabilmente più suggestivo e illimitato di quanto non sarebbe accaduto se si fosse cercato di manifestarne mimeticamente i significati. Il tentativo di renderli tangibili attraverso una concretizzazione in oggetti sarebbe, forse, servito solo a mettervi un confine.
Teresa Vila
Il testo, grazie al progetto Fabulamundi, può essere richiesto gratuitamente con una mail a [email protected]
La traduzione in italiano è di Attilio Scarpellini.