Esistono luoghi capaci di rivelarsi al di là delle loro fattezze materiali: non sono fatti di pareti, mattoni o pietre, ma si creano da fili impercettibili di movimenti, onde sonore o punti di incontro dispersi nello spazio. Alkantara, prima di essere un luogo e prima ancora di essere un festival –andato in scena nelle scorse settimane nella bella e fascinosa Lisbona – è “centro di scambio”, come vuole la sua derivazione etimologica. Nata come un’associazione nel 2005 per promuovere la sperimentazione delle arti performative, attualmente Alkantara Festival continua a essere un punto nevralgico di transito delle principali compagnie di teatro contemporaneo portoghese e internazionale. Il festival si offre così come uno spazio intermittente di proposte artistiche, che ogni anno è destinato a essere attraversato da micro-cosmi nuovi e dalle molteplici sfumature. In questo modo, giunto alla sua decima edizione, il festival ha proposto una tematica specifica: convergere verso un passato lontano o recente per interrogarlo, cercando un punto di ricongiungimento per indagare l’identità e il luogo in cui ci si trova, e definire la direzione cui tende.

Tutti gli artisti protagonisti del festival hanno deciso di rispondere al tema centrale con progetti differenti: dalla prosa a teatro-danza, dal teatro interattivo fino ad arrivare alla danza butoh. Per citarne alcuni tra i principali: Performances para o Alkantara dei portoghesi Sofia Dias e Vìtor Roriz, Segunda Feira: Atenção à direita di Claudia Dìas, O nosso desporto preferido – presente  di Gonçalo Waddington; le proposte provenienti dal continente africano come Sur les traces de Dinozord del congolese Faustin Linyekula, 55 del marocchino Radouan Mriziga e quelle dall’estremo estremo oriente come About Kazuo Ohno, di Takao Kawaguchi. E ancora: La nuit des taupes (welcome to Caveland) di Philippe Quesne e Aquì há regras! di Collectif Jambe;  Escenas para una conversación después del visionado de una pelicula de Michael Haneke del Conde de Torrefiel e We need to talk di Roger Bernat.

Se il tentativo di Alkantara festival era quello di restituire al pubblico, tramite sguardi differenti, un’idea di come potrebbe essere un possibile sbocco artistico del festival in futuro, We need to talk del catalano Roger Bernat e 55 di Radouan Mriziga sono forse le due performance che hanno fornito gli spunti più interessanti per guardare all’arte e al momento scenico con occhi diversi, in una nuova e, per certi versi insolita, concezione.

We need to talk, in scena al cinema São Jorge, nella centralissima Avenida da Libertade, ha le forme di un “karaoke-doppiaggio” cinematografico. Un’esperienza scenica dilatata nel tempo: dalle quattro del pomeriggio fino alla mezzanotte, il pubblico ha preso parte alla performance, scegliendo liberamente se restare per tutta la durata dell’evento oppure se interrompere la fruizione dopo pochi minuti. Tema centrale e comune alle scene dei film proposti, la coppia, immortalata in effusioni amorose o in litigi animati. All’ingresso, ogni spettatore viene dotato di auricolari con i quali potrà ascoltare il re-make cinematografico. Funzionali allo svolgimento scenico, un piccolo banchetto dotato di computer posto all’ingresso della sala, dove il pubblico può scegliere i film da doppiare; un maxi schermo su cui vengono proiettate di volta in volta le scene dei vari film; due postazioni ai lati della sala con due piccoli monitor e divise da un separé, destinate ai due spettatori che decidono di prestare la propria voce alla scena, seguendo le parole proiettate. Nessun performer prestabilito, dunque, ma, piuttosto, un continuo alternarsi tra chi decide di doppiare la scena di un film – in un mix di voci, risate, sospiri e frasi che restano volutamente sospese e dunque equivoche – e chi, al contrario, decide di restare nell’oscurità a spiare passivamente quanto accade.

We need to talk rimanda a un macro (e dissacrante) rituale della confessione in cui i partecipanti non si possono vedere: l’alter ego filmico appare così distante (si suppone) da loro stessi da riuscire a innescare un meccanismo catartico dove le frasi provocanti e volutamente erotiche che devono pronunciare, portano lo spettatore a una liberazione. Doppiatore (chi presta direttamente la propria voce alla scena) e testimone (chi fruisce passivamente) restano così immersi in una catena di azioni-sguardi che li conduce a una necessità di parlare, di giungere al senso ultimo del discorso che non si palesa mai: sono scene che potrebbero continuare e succedersi all’infinito quasi in uno specchio riflesso e in perpetuo sdoppiamento.

Diversa, ma non meno enigmatica, è 55, l’opera del performer marocchino Radouan Mriziga. In scena pochi ed essenziali elementi: un danzatore, cinque piccoli registratori, posizionati in punti equidistanti all’interno dello spazio e un nastro adesivo bianco. Il performer attraversa la scena, si muove con gesti scomposti mentre i suoni provenienti dai registratori emettono suoni spezzati:  Mriziga però non si muove secondo il ritmo dettato dalle musicassette, ma decide di crearne un altro con il proprio corpo, partendo dai battiti della sua mano sulle gambe e sulle braccia. Come se le musicassette si inscrivessero dentro a uno spazio che non è quello del danzatore: Mriziga cerca di dar vita a un’altra dimensione spazio-temporale. Questa procedura prepara così il pubblico alla seconda parte della performance, quando Mriziga inizia a disegnare il pavimento con un nastro bianco adesivo: prima una x, poi un rombo, poi un ottagono per finire col racchiudere tutte le figure disegnate dentro a un quadrato. Lo spazio si trasforma in una congiunzione di punti, di linee, di cerchi in cui l’unità di misura primaria è il corpo del ballerino: ora un piede, ora un braccio, ora il gomito sono gli elementi che permettono di estendere il disegno, quasi che il copro del ballerino si trasformasse in un ingegnoso “compasso umano”. Il pubblico non può che restare attonito di fronte a un’abile partitura fisica che non conosce punti di arresto ma continue linee che sgorgano quasi naturalmente dal movimento del performer. 55, oltre a rappresentare i minuti necessari al danzatore per realizzare la sua performance, si configura come una strabiliante architettura di tempo, corpo e spazio: un’architettura che ridisegna la materialità della scena per originare un luogo-corpo.

I tocchi di Mriziga sembrano le lancette di un orologio, che segnano un tempo altro, che va oltre alla temporalità comune e sembra in grado di fondare una spazialità nuova: quella dettata dal movimento, prima ed unica particella architettonica dello spazio. 55, all’apparenza solo un numero, dimostra la possibilità, attraverso l’abilità del performer, di tendere le geometrie del movimento verso la riscrittura di uno spazio al fine di rendere visibili linee che normalmente resterebbero sospese in aria e del tutto nascoste all’occhio umano. Al termine dello spettacolo gli spettatori si infilano tra quelle linee e tra quelle geometrie, le osservano. In altre parole, il pubblico decide di abitare, per pochi istanti, un luogo, che prima ancora è stato un movimento, dettato da un ritmo.

Alkantara Festival accoglie e rilancia sfide innovative alla creazione scenica: quale ruolo compete realmente allo spett.attore chaimato a interpretare una parte? Qual è lo spazio che gli appartiene? E ancora: quali significati innovativi può apportare il corpo, inteso come strumento concreto di riscrittura architettonica della scena? Forse queste domande aperte, rilanciate dal festival, indicano già una possibile (e auspicabile) via al futuro.

Carmen Pedullà